È il tatto che racconta i vini di vallata

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I Vignaioli Valle di Mezzane sono tredici aziende agricole della vallata mezzanese, terra che sta nel lato più orientale della Valpolicella, nella provincia di Verona, e che anzi scavalla il bordo dell’area del Soave, sicché la produzione, lì, è un po’ dedita al bianco soavese e un po’ – un bel po’ di più, va detto – ai rossi valpolicellesi. Qualche giorno fa, ero stato invitato a guidare un tentativo di “lettura” dei loro vini in un incontro – il primo fatto in pubblico dal gruppo – che aveva non per caso il titolo di “Nero su Bianco”. Di scena, infatti, c’erano alcuni Soave e alcuni Valpolicella. La mia teoria è che se un territorio vinicolo ha un’identità, questa deve in qualche modo trasparire in maniera trasversale in tutti i vini che ne provengono, a prescindere dalle varietà di uve coltivate e dai sistemi di vinificazione. Ovvio che se si fa uso degli strumenti di analisi organolettica convenzionali, basati sul colore, sul profumo e sul gusto, non se ne esce, perché c’è davvero poco che, in termini di fiori, frutti o spezie possa accomunare dei vini bianchi e dei vini rossi. L’unica possibilità, a mio avviso, è quella di concentrarsi sulle percezioni tattili, e dunque ricercare da un lato un eventuale, possibile equilibrio specifico tra acidità e sapidità e dall’altro la piccantezza o la morbidezza della speziatura. Ebbene, facendo ricorso a questa metodologia di assaggio, la mia impressione è che nei vini dell’areale della Valle di Mezzane spicchino proprio l’equilibrio tra sapidità e freschezza acida (parlo di equilibrio, non di intensità: l’equilibrio dev’esserci a prescindere dall’intensità, la quale risente delle altitudini e delle stagioni) e soprattutto la costante piccantezza della speziatura, individuabile talora nello zenzero, talaltra nel pepe nero.

Il caso ha voluto che pochi giorni dopo quella degustazione avessi in agenda la visita a una delle tredici aziende del gruppo, la Ilatium della famiglia Morini (sette tra fratelli e cugini), per cui ho avuto la possibilità di ripetere l’esperimento su quasi tutti i vini di un unico produttore mezzanese, e quando dico “quasi tutti i vini” intendo il Soave, una selezione di Soave da uve brevemente appassite, il Valpolicella “fresco”, il Valpolicella Superiore, che fa ricorso all’appassimento, l’Amarone della Valpolicella, una Riserva di Amarone e il Recioto della Valpolicella. Insomma, una considerevole eterogeneità di bottiglie e di stili enologici. Ebbene, la sensazione tattile della piccantezza dello zenzero, e in parte del pepe nero, l’ho ritrovata pressoché costante, tant’è che il Soave giovane e il Recioto della Valpolicella sembravano parlare con una sorta di analoga inflessione dialettale, e chi mi conosce sa che a me piacciono i vini che parlano in dialetto, ossia che esprimono il carattere delle loro comunità di origine.

Chissà, magari è solo una mia impressione. Oppure no, oppure è la vallata a possedere davvero qualcosa di suo, di particolare, di specifico, che sotto il profilo regolamentare potrebbe trovare compiuta definizione attraverso il riconoscimento di una sottozona dedicata, progetto al quale sta peraltro lavorando, per tutte le vallate dell’area di produzione, il Consorzio di tutela dei vini della Valpolicella.

Comunque, se vi capitasse di bere qualche vino dei tredici produttori che fanno parte del gruppo dei Vignaioli Valle di Mezzane, fateci caso a questa cosa delle sensazioni tattili. Ossia: provate ad assaggiare il vino senza prima annusarlo e senza poi basarvi sui profumi retro olfattivi, concentrandovi invece solo sul tatto. Che poi, questa forma di assaggio non è un’invenzione mia, ma è un metodo che ha origine abbastanza in là negli anni, diffuso soprattutto in Borgogna. Poi, se potete, fatemi sapere quel che ne pensate.

Per promemoria, i nomi dei vignaioli li elenco qui di seguito: Benini Alessandro; Marinella Camerani; Falezze di Luca Anselmi; Grotta del Ninfeo; I Tamasotti; Il Monte Caro; ILatium Morini; Le Guaite di Noemi; Talestri; Massimago; Carlo Alberto Negri; Roccolo Grassi; Giovanni Ruffo.