Prosecco, quando la marca è tutto

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Succede che la marca di qualche oggetto di grandissimo successo popolare finisca per essere identificata come un termine universale per indicare una tipologia di prodotto. Quante volte parliamo di Scotch per identificare il nastro adesivo trasparente, anche se quello che stiamo adoperando non reca affatto il marchio Scotch della 3M? Oppure, ammettiamolo, tutta la carta per asciugare la chiamiamo Scottex, anche se non lo è affatto, anche se non ha il marchio Scottex della Kimberly-Clark. Stessa cosa per il Post-it, altro marchio depositato dalla 3M, ma ormai universalmente utilizzato come nome generico dei foglietti adesivi per gli appunti. La serie potrebbe continuare con Jeep, Rimmel (già, è una casa di cosmetici) e altri nomi ancora. Gli esperti parlano di “volgarizzazione del marchio”, in questi casi.
Ebbene, anche nel mondo del vino è accaduta la stessa cosa col Prosecco, se pensiamo alla denominazione d’origine come a un marchio collettivo. Ormai in giro per il mondo (e anche in Italia, spesso) quando si parla di Prosecco non si pensa più solo alla denominazione veneto-friulana, bensì a qualunque vino italiano con le bolle. Tutto è Prosecco, basta che venga dall’Italia e abbia le bollicine. Viene considerato insomma come una tipologia di vino ben prima che una denominazione. Così non deve stupire – a me non stupisce affatto – che il britannico The Guardian nell’indicare sei etichette di Prosecco ai propri lettori abbia inserito in elenco anche il Ferrari, che è un metodo classico che va sotto la doc Trento. Nemmeno che tanti ristoranti mettano nella lista dei Prosecco anche dei Franciacorta o dei Trento o degli Oltrepò.
Succede, ho detto all’inizio, con le marche di grandissimo successo popolare. Il Prosecco ha grandissimo successo popolare. Ecco qui, ha vinto il Prosecco.

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