Non credo che il vino possa alzare troppo i prezzi

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Il bello delle opinioni è che sono opinabili, e cioè si possono discutere e mettere in dubbio, esprimendone di diverse. Il che presuppone non già l’intento polemico cui ci hanno ignobilmente assuefatti i social media, bensì la volontà di proporre punti di vista diversi. È con questo spirito che dichiaro il mio dissenso rispetto all’opinione di Fabio Piccoli quando, su Wine Meridian, torna a ripetere che – cito – “il riposizionamento di alcune nostre denominazioni (alcune è un eufemismo) sarebbe stato decisamente opportuno per consentire una loro corretta remunerazione, ma anche per migliorare la loro immagine”. Lodevole auspicio, che a mio avviso cozza tuttavia contro la realtà dei fatti, anche se a Fabio riconosco di essere tra le poche voci che propongono ipotesi di letture sistemiche del settore.

I motivi del mio dissentire sono fondamentalmente quattro.

Il primo motivo è che le denominazioni di origine sono marchi collettivi, non marchi privati, e che non esistono strumenti per indurre una pluralità talvolta molto ampia di soggetti a praticare politiche commerciali convergenti. Nel caso poi che si trattasse di pochi soggetti, simili politiche, pur virtualmente praticabili, sarebbero illegittime, stante il divieto di fare cartello, come ammette lo stesso Piccoli. Gli unici strumenti nelle disponibilità dei consorzi di tutela sono quelli, spuntati e poco efficaci, della regolazione di mercato attraverso la regolazione dell’offerta (meno uva per ettaro in caso di eccesso di offerta, adozione di riserve vendemmiali in caso di eccesso di domanda) e della promozione quale leva di possibile (ma costosissima) sollecitazione della domanda.

Il secondo elemento di dissenso è che non è comunque detto che un eventuale riposizionamento di prezzo del vino allo scaffale comporti un effettivo aumento di redditività per il settore vinicolo. In un’economia di mercato, i prezzi dei beni di consumo derivano non solo dal costo di produzione, ma anche, se non soprattutto, dall’incrocio della domanda e dell’offerta. La domanda di vino sta calando, l’offerta è molto alta e il calo dei consumi non fa che aumentare le giacenze. Nei fatti, c’è un eccesso di offerta, e a fronte di un eccesso di offerta i prezzi non possono crescere, non più di tanto anche in un contesto inflativo, pena la dissuasione all’acquisto. Infatti, i dati di settembre dell’Osservatorio del Vino Uiv-Ismea dicono che nella grande distribuzione italiana, a fronte della spinta inflazionistica in atto, i vini a denominazione di origine sono quelli che segnano i cali di vendite più consistenti (-8,7%, che diventa -11,5% per i rossi), il che a mio avviso dimostra come il segmento a posizionamento maggiore sia quello caratterizzato dalla minore elasticità della domanda. Il che rende, sempre a mio opinabile avviso, assai poco profittevole, e anzi molto rischioso, il riposizionamento verso l’alto ipotizzato da Wine Meridian, in assenza di una sollecitazione efficace della domanda.

Il terzo motivo è legato proprio all’inflazione. I costi dell’energia, dei beni di consumo e dei servizi si stanno tutti più o meno innalzando, senza che vi sia un ritocco verso l’alto delle retribuzioni, mancando simili previsioni contrattuali. Ne deriva un minor reddito disponibile da parte delle famiglie, che devono incominciare a tagliare spese superflue. Il vino non è più considerato un alimento essenziale, e da molti viene anzi demonizzato. Anche questo comporta una diminuzione della domanda, che va ad aggravare il contesto problematico di un mercato già reso molto viscoso dall’eccesso di offerta. Dunque, i ritocchi in alto dei prezzi verranno difficilmente accettati, se non dalle fasce più abbienti, che tuttavia sono sempre più sottili (una parte del ceto medio sta scivolando verso la fascia prossima alla povertà), portando ad un abbandono di un acquisto considerato superfluo.

Il quarto motivo è dato dalla struttura della filiera del vino. Questa di divide in tre segmenti: la produzione di uva, la trasformazione dell’uva in vino, l’imbottigliamento del vino. Solo una parte della filiera, anche abbastanza piccola, detiene le tre attività contemporaneamente (sono le cosiddette filiere verticali, quelle, per intenderci, sui appartengono i vignaioli). La gran parte dei produttori di uva non produce vino direttamente, la gran parte dei vinificatori non imbottiglia a marchio proprio e la gran parte degli imbottigliatori non ha né uva, né vino propri. Nelle fasi espansive del mercato di alcune denominazioni, i produttori di uva guadagnano molto, a volte vendendo l’uva a un prezzo addirittura maggiore rispetto a quello del vino che ne viene ottenuto, a discapito degli imbottigliatori, che vedono comprimersi e a volte azzerarsi i margini, pur di mantenere i contratti con la distribuzione. Nelle fasi recessive, i viticoltori sono invece la parte debole, quella costretta a patire in maniera più pesante gli effetti della contrazione del mercato, e subiscono la pressione degli imbottigliatori, che lottano per mantenere i propri margini senza dar luogo a un eccessivo aumento dei prezzi finali sulla distribuzione. Il vero problema, dunque, è trovare un equilibrio interno alla filiera. Temo che, in assenza, per i motivi che ho detto sopra, di un riposizionamento adeguato dei prezzi verso l’alto, la fascia dei produttori di uva che saranno costretti a una contrazione di reddito sia destinata ad aumentare. In fasi come questa, infatti, chi fa uva ha scarso o nullo potere negoziale. Al massimo, può rassegnarsi a non vendemmiare o ad abbandonare i vigneti a se stessi. I primi segnali si sono già avuti, qui e là, con l’ultima vendemmia. Ovvio che la cosa mi rattrista, molto, ma insisto nel dire che abbiamo troppi vigneti.

Questa è la mia opinione, che come tale è anch’essa evidentemente opinabile. Tra l’altro, non sono neppure felice di averla, quest’opinione, ma il contesto credo che non lasci molti spazi per altre ipotesi.