Vinitaly e il vino italiano spaccato in due

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A Vinitaly ho visto il mondo del vino italiano spaccato in due tronconi come non mi era mai successo. Da un parte, generalmente piuttosto contenti, i produttori, soprattutto medio piccoli, che hanno puntato sulla qualità e magari anche sulla sostenibilità; dall’altra parte, seriamente preoccupati e anche abbastanza nervosi, gli imbottigliatori e i grossi vinificatori, cantine sociali comprese. Non voglio generalizzare, ma questa è la tendenza che ho colto. Pertanto, questa volta è impossibile fare un bilancio di Vinitaly che vada bene un po’ per tutti, perché è stato come prendere parte a due fiere in una. Anzi, dico che in questo momento non si può neppure più parlare del mondo del vino italiano, perché quel mondo si è fratturato in due pezzi, e la crepa, più o meno profonda, attraversa tutto il settore. A Vinitaly lo si è percepito in maniera netta, o quanto meno questa è stata la mia percezione. Al di là di quel che dicono le vulgate della promozione vinicola, tra gli stand si sentiva mormorare di cali a doppia cifra per vari territori anche molto blasonati e di crolli verticali di altri. C’è perfino chi incomincia a inquietarsi perché mancano ormai “solo” quattro mesi alla prossima vendemmia, e le cisterne sono inesorabilmente piene. Altri interrogativi discendono da quanto si mormora circa la fibrillazione riguardante la governance di alcune aziende del vino e di alcuni consorzi di tutela. Nello stesso tempo, chi ha fatto un salto deciso verso l’eccellenza e ha spuntato listini da zona premium, in fiera non ha avuto un attimo di respiro, e i contatti commerciali si sono moltiplicati.

Non so se questa situazione sia passeggera o strutturale. Potrebbe essere determinata dai conflitti in corso o dalla congiuntura economica sfavorevole, ma potrebbe anche derivare da un cambiamento radicale delle abitudini di consumo. Vallo a capire, e soprattutto vai a capire se ci sarà di nuovo uno scatto, un rimbalzo, come è successo in passato: il vino a volte sorprende.

Quanto alla manifestazione in sé, i numeri ufficiali parlano di un cinquantaseiesimo Vinitaly da 97 mila presenze, 30 mila delle quali riferite a operatori esteri provenienti da 140 paesi. Mi pare che sia inconfutabile il buon lavoro di Veronafiere, capace di portare tra i padiglioni 1200 top buyer da 65 nazioni, tutti selezionati, invitati e ospitati dalla fiera in collaborazione con Ice Agenzia. Rispetto a Wine Paris, magari a Verona c’era qualche americano di punta in meno, ma nella fiera veronese c’erano i compratori asiatici, che al ProWein di Düsseldorf non si erano quasi visti. Il modello Vinitaly, che consiste in una fiera formemente nazionale proiettata su una dimensione internazionale, ha dunque funzionato, nonostante le Cassandre e i venti di crisi.

In più, ha funzionato bene il fuori salone ufficiale di Vinitaly and the City: le piazze del centro storico che ospitavano la manifestazione le ho sempre viste gremite di pubblico. Di fatto ormai è sdoppiato anche Vinitaly: da una parte la fiera nel quartiere fieristico, dall’altra il fuori fiera nel cuore della città. Addirittura, secondo me Vinitaly and the City andrebbe ulteriormente rafforzato, investendoci coraggiosamente molte più risorse, perché mai come in questo momento è essenziale riavvicinare il vino ai bevitori, e il salone del vino italiano – questa è la definizione che usualmente si dà della rassegna veronese – non può certamente esimersi dalla responsabilità di esercitare un ruolo nodale per il settore. Un settore che, a tratti, mi dà l’impressione di avere sorrisi tirati per nascondere un malessere strisciante.

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