Manca il vetro, le bottiglie diventano di carta e di lino

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Trovare bottiglie di vetro è diventata una fatica bestiale. Soprattutto le bottiglie di vetro bianco, quello bianco-bianco, non quello azzurrato. Con la guerra in Ucraina di vetro bianco ce n’è meno, e finisce per la maggior parte nella produzione dei vasetti per le conserve del supermercato. Ma al di là dell’introvabilità del vetro, c’è anche il fatto che le bottiglie tradizionali hanno un’impronta carbonica altissima. Insomma, in un’epoca in cui vorremmo maggiore attenzione ai temi ambientali, le bottiglie di vetro non se la passano bene, perché per produrle e per trasportarle si spreca un sacco di energia.

La soluzione? C’è chi ha tirato fuori la proposta di ripristinare il vetro a rendere. A me sembra assai poco praticabile. Troppi produttori, troppi vetri diversi, troppe sagome diverse, e inoltre c’è il problema delle linee di imbottigliamento, che non riescono a lavorare in maniera lineare con bottiglie che non siano perfettamente identiche, e c’è il problema dei tappi, perché a fronte di calibri del collo delle singole diverse anche solo minimamente differenti c’è una diversa reattività delle chiusure, con relativi rischi di ossidazioni o di riduzioni. Semmai, il riuso potrebbe andar bene se si adoperassero i tappi a corona, ma salvati o cielo se solo proponi di usare il tappo a corona sui vini. Già fa fatica il tappo a vite, accusato di far smarrire la “ritualità” della stappatura, figurarsi il tappo a corona.

Poi? Be’, ci sarebbero i bag in box e le lattine. Ma i bag in box necessitano di volumi maggiori di vino rispetto alla bottiglia e comunque non garantiscono lunghe conservazioni e per le lattine, qui da noi, oltre al problema della durata, c’è il medesimo ostracismo di cui sopra. Intanto, negli Stati Uniti, invece, il vino in lattina vola, peccato che sia raramente italiano.

La ricerca, comunque, va avanti. Da qualche tempo si stanno sperimentando bottiglie fatte con i semi di lino. Somigliano in qualche modo alle bottiglie del Maraschino Luxardo, ce l’avete presente? Ne ho letto, in italiano, sul sito di Enolò, che si autodefinisce “una start up innovativa che si propone di ridefinire lo scenario strategico e operativo nella filiera del settore enologico” e ne ho riletto, in inglese, sul sito della rivista britannica Decanter. Le bottiglie di lino le produce un’azienda francese, la Green Gen Technologies. All’ultimo ProWein hanno annunciato che un produttore di Cognac, A de Fussigny, ha cominciato a usarle. Sembra che le userà anche una cantina di Bordeaux.

Poi, ci sono le bottiglie di carta (all’interno c’è una pellicola alimentare). Ne parla ancora Hudin. Stavolta il produttore è britannico, la Frugalpac di Ipswich, ma il lancio l’ha fatto un’azienda vinicola italiana, la Cantina Goccia di Castiglione del Lago, in Umbria. Sul sito dell’azienda vinicola si decantano i sei vantaggi delle bottiglie di carta: sono più leggere di quelle di vetro, producono un carbon footprint molto ridotto rispetto al vetro, sono più facili da riciclare, usano molta meno plastica rispetto alle bottiglie di plastica, sono facilmente brandizzabili e sono convenienti.

Dunque, ci siamo? Neanche per idea. Perché in Italia abbiamo una legislazione molto, molto, molto conservatrice in fatto di imbottigliamento del vino. Tuttora, per esempio, non è possibile mettere in bag in box a denominazione di origine che abbiano una menzione speciale come “classico” o “superiore”. In lattina ci possono andare solo i vini generici o gli igp, ma non i vini a denominazione di origine. Il tappo a corona non si può usare nei vini a denominazione garantita o nei vini di sottozona, e altre amenità del genere. Dico “amenità” perché il mondo, là fuori, corre, e noi siamo al palo. Poi, non sorprendiamoci se in molti territori la viticoltura è al di sotto del livello di sussistenza. Quand’è che lo cambiamo questo benedetto decreto sui confezionamenti del vino? Liberalizziamo, per favore, e poi ciascuno farà secondo le proprie esigenze e il proprio lignaggio, inserendo o no le innovazioni nei disciplinari di competenza. Ma non neghiamoci le opportunità.