Chi guarda ai fatti della vita con ottimismo sa che i momenti di crisi possono costituire delle preziose occasioni di riflessione, capaci di trasformarsi in opportunità. Voglio pertanto sperare che dall’attuale crisi di mercato scaturisca, per il vino italiano, una prospettiva più moderna, libera da vincoli anacronistici e consuetudini stantie. Affinché questo auspicio possa ricevere concretezza, sarebbero utili quattro principali riforme del quadro normativo di settore.
In primo luogo, è urgente una totale liberalizzazione dei sistemi di confezionamento e di imbottigliamento. Non ha alcun senso che ci siano tuttora delle denominazioni di origine per le quali è preclusa la possibilità di utilizzare le chiusure alternative al “tappo raso”. La capsula a vite è patrimonio largamente acquisito dai consumatori di alcuni mercati, il tappo a corona è utilissimo per alcune tipologie di vino: liberalizziamoli definitivamente e creiamo anche un automatismo che consenta il recepimento di eventuali altri nuovi sistemi di tappatura. Così pure, lasciamo liberi i produttori di confezionare tutti i loro vini a denominazione di origine, oltre che in vetro, anche nelle lattine, nelle bottiglie di carta, nei bag in box e negli altri contenitori che man mano vengano ideati e si caratterizzino per semplicità di fruizione e bassa impronta carbonica. Le abitudini dei consumatori evolvono, ma il vino a denominazione di origine è inchiodato a ritualità arcaiche e oscurantiste, che impediscono di rispondere alla domanda di nuovi mercati e di nuovi segmenti di clientela.
Tra le ritualità normative da riformare c’è anche quella delle commissioni di assaggio dei vini per i quali viene richiesto l’utilizzo della denominazione di origine. Fosse per me, le abolirei, in quanto (l’ho già sottolineato più volte) introducono un elemento di soggettività che ritengo inaccettabile (la valutazione di un gruppo di degustatori), rispetto all’oggettività dei parametri richiesti dalla legge e dai disciplinari di produzione. Chi rispetta i parametri produttivi di una denominazione di origine deve poterla utilizzare liberamente. I parametri previsti dai disciplinari non bastano? Definiamoli meglio, se necessario ampliamoli, ma smettiamola di far dire a un piccolo gruppo di assaggiatori che cosa sia “tipico” o no. Sarà pur vero che i vini “bocciati” dalle commissioni sono mediamente pochi, ma, tra quei pochi, sovente ci sono vini proposti da vignaioli capaci di gettare lampi di luce su territori asfittici. Privare di questi vini apripista le denominazioni di origine è un danno per tutti, non solo per chi li ha prodotti.
Il terzo ambito normativo da rivedere riguarda la viticoltura. Di fronte al clima che muta drammaticamente e anche alla maggiore sensibilità dei consumatori per temi della salvaguardia ambientale, mi domando che cosa si aspetti a prevedere la possibilità di introdurre nei disciplinari di produzione delle denominazioni di origine le varietà resistenti. Ovvio che la loro presenza non può e non deve alterare l’identità dei vini della denominazione, ma non ammetterne l’uso, soprattutto nel caso di denominazioni che prevedano già una pluralità di vitigni, è antistorico e insostenibile. È in qualche modo analogo il tema dei sesti di impianto, delle fittezze dei ceppi e delle rese per ettaro, le cui previsioni regolamentari spesso rispondono a logiche di ricerca di una iper concentrazione del frutto ormai del tutto superata: se vogliamo sperare di avere vini che conservino freschezza e piacevolezza di beva e che magari presentino un tasso alcolico meno elevato, è bene pensare di liberalizzare le forme di allevamento della vite. L’alternativa, per quel che riguarda le gradazioni alcoliche, è la dealcolizzazione, ma per le denominazioni di origine sarei più propenso a favorire i cambiamenti in vigna.
Poi c’è il tema spinoso della rappresentatività in seno ai consorzi di tutela. È vero che le attuali forme di rappresentatività, basate sulla quantità di uva vendemmiata, sulla quantità di vino prodotto e sulla quantità di vino imbottigliato, trovano lecita giustificazione nell’evidenza che chi più produce, più è chiamato a pagare in termini di contribuzione economica alle casse consortili, e dunque più contribuisce alla promozione della denominazione, ma se questo criterio venisse applicato anche alla vita pubblica, dovremmo presupporre che il potere elettorale ed elettivo si attui in base al reddito o alla fiscalità generati dai singoli, cosa evidentemente del tutto inammissibile. In democrazia, tutti i cittadini contano per uno; forse è arrivato il momento che i produttori di uva, i produttori di vino e i commercianti contino uno per ciascuno, a prescindere da quanta uva fanno o da quanto vino immettono sul mercato. Purché, ovviamente, si garantisca un equilibrio che consenta la salvaguardia delle parti più deboli della filiera, e in genere i più fragili sono i viticoltori.
Voglio sperare che almeno qualcuna di queste quattro riforme si possa realizzare. Sarebbe una bella boccata di ossigeno, che fa prendere fiato, stimola la creatività e il senso di appartenenza e fa guardare con positività al futuro.