Che fine hai fatto terroir?

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La domenica, e poi man mano un po’ durante la settimana, mi concedo il piacere della lettura del supplemento culturale del Sole 24 Ore: il domenicale, con le sue dotte rubriche, vale proprio la pena approfondirlo. Sull’edizione di domenica 19 giugno 2011 c’era un elzeviro di Vincenzo Cerami sullo stato della letteratura in Italia. Titolo: “Che fine hai fatto letteratura?”
Perché ne parlo qui? Perché credo che il parallelismo fra quanto scrive Cerami sulla letteratura italiana e quanto accade nel mondo del vino sia piuttosto evidente.
Dice Cerami: “Mi passano tra le mani centinaia di libri dei miei connazionali, spesso molto interessanti per i temi affrontati. Si leggono con una certa sveltezza, non si dilungano in divagazioni, si esprimono in un campo lessicale piuttosto agile ed essenziale, utilizzano una lingua denotativa che tende a omologarli sul piano dello stile. Il lettore fa pochi sforzi, prende per buoni i caratteri dei personaggi, delineati più tramite l’oggettività delle azioni e dei comportamenti che attraverso la menzogna dei pensieri, anzi della lingua dei loro pensieri. Così risultano accattivanti i romanzi e i racconti che hanno trame elaborate e ricche di rimandi e indizi. All’aumento, fin troppo vertiginoso, di raccontatori di storie, corrisponde una visibile diminuzione di letteratura. Ho sempre pensato che spezzare ogni rapporto tra gli uomini e la lingua che li racconta vuol dire togliere alla Storia ogni responsabilità sul loro vissuto”.
Testo magistrale, nel quale vedo molte analogie con la situazione attuale del mondo del vino. E per chi queste analogie faticasse a vedercele, propongo qui di seguito il medesimo testo con qualche ritocco capace – spero – di renderlo compatibile con l’argomento enoico (e me ne scuso con Cerami se ho osato tanto).
Ordunque: “Mi passano tra le mani centinaia di bottiglie dei miei connazionali, spesso molto interessanti per i territori e i vitigni di origine. Si assaggiano con una certa sveltezza, non si dilungano in divagazioni, si esprimono in un campo organolettico piuttosto agile ed essenziale, utilizzano una lingua enologica denotativa che tende a omologarli sul piano dello stile. Il degustatore fa pochi sforzi, prende per buoni i caratteri aromatici, delineati più tramite l’oggettività della struttura e della concentrazione del frutto che attraverso la menzogna dei pensieri, anzi della lingua dei loro pensieri. Così risultano accattivanti i rossi e i bianchi che hanno trame tanniche o acide elaborate e ricche di aromi fruttati e di morbidezza. All’aumento, fin troppo vertiginoso, di produttori di vino e di enologi, corrisponde una visibile diminuzione di espressione del terroir. Ho sempre pensato che spezzare ogni rapporto tra gli uomini e il vino che li racconta vuol dire togliere al terroir ogni responsabilità sul loro vissuto”.

articolo originariamente pubblicato il 24 giugno 2011


1 comment

  1. Giovanni

    Geniale

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