A proposito di rappresentanza (nelle doc)

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Ritengo le denominazioni di origine del vino un bene collettivo. E che si tratta di un bene che necessita di continua manutenzione. Bene, se i disciplinari sono un plus collettivo e se abbisognano di attenta manutenzione, occorre che sia un intero territorio a gestirli.

Purtroppo, le regole attuali rendono talvolta difficile questa manutenzione collettiva, in quanto la composizione elettiva degli organismi dei consorzi di tutela è sì pensata per dare voce a tutti e tre i rami della filiera vitivinicola – ossia viticoltori, vinificatori e imbottigliatori -, ma talvolta il peso ponderale di questi tre rami finisce per volgere verso pochi soggetti che agiscono in tutte e tre le attività: penso ad esempio alle cooperative maggiormente dimensionate, che sono maggioritarie in tutti e tre gli ambiti della filiera.

Attenzione: non è una colpa. Ed è pur vero che tali soggetti sono anche quelli che più di tutti contribuiscono a sostenere i costi di funzionamento dei consorzi e di promozione della denominazione. Peraltro, sono talvolta altri i soggetti che apportano valore aggiunto alla denominazione in termini di qualificazione reputazionale, e mi riferiscono a molti piccoli produttori la cui qualità produttiva, riconosciuta dalla critica internazionale, favorisce anche l’apprezzamento economico di tutta la denominazione. Questo valore reputazionale oggi non viene pesato, perché è lontano dal mondo italiano della denominazioni di origine il concetto di brand equity, di patrimonio di marca, intendendo la doc come una marca in sé. Credo pertanto che sia necessario riflettere su cosa significhi realmente il concetto di rappresentanza all’interno di una marca collettiva, senza farsi prendere né dalla fretta, né dal pregiudizio reciproco.

Attenti: ho detto senza pregiudizi. Non ne posso più di chi si sente l’unico depositario della via e della verità, quando si parla di denominazioni d’origine e di vini di territorio. Non ne posso più dei piagnistei dei piccoli che ce l’hanno coi grandi, e poi magari si scopre che il grande di turno è più trasparente del piccolo piagnucolone. Se la denominazione è un bene collettivo, va responsabilmente coltivata e valorizzata da tutti. Affrontando i problemi e le questioni con la consapevolezza del proprio ruolo. Inutile puntate a fregarsi reciprocamente: tutti sanno tutto di tutti.

La rappresentanza non può basarsi su alcuna dittatura, men che meno sulla dittatura di una minoranza. La rappresentanza deve dare giusta e corretta dignità a tutti. Corretta, ho detto. Ci si può arrivare? Credo di sì, anche se è un esercizio culturale non facile. Tuttavia, il tema della rappresentanza sta investendo oggi un po’ tutti i settori, dalla vita civile alla politica, dalla produzione al sindacato. Il vento va in questa direzione, oggi. Non credo sia possibile chiamarsene fuori. Tanto vale gestire il cambiamento. Anche se la strada non è in discesa. Anzi.

Articolo originariamente pubblicato il 15 ottobre 2013