Sono sempre stato e resto convinto che la denominazione di origine sia un bene collettivo. Quando dico “bene” lo intendo sia in termini economici, sia in termini culturali, con riferimento ad uno specifico territorio e ad una collettività di persone che vivono su quel territorio.
Tuttavia, le denominazioni sono regolate da disciplinari e da normative che talvolta rischiano di creare problemi alla valorizzazione di questo bene collettivo inteso nella sua duplice accezione.
Nato negli anni Sessanta, quando il vino italiano necessitava di uscire dalla sostanziale anarchia produttiva dell’epoca e dunque abbisognava di una regolazione che andasse verso un miglioramento qualitativo della produzione, il sistema nazionale delle denominazioni di origine risente tuttora di quell’impostazione originaria. È infatti pieno di vincoli tecnici che poco o nulla hanno a che vedere con la valorizzazione dei caratteri identitari di un territorio vitivinicolo.
I vari tecnicismi molto spesso finiscono per alimentare non già la ricerca della massima espressione identitaria di un territorio, bensì una mediocrità che risponde quasi solo a logiche mercantili massive, involontariamente favorite talora dai giudizi espressi dalle “commissioni di assaggio” degli enti di certificazione, che, nel nome di una presunta e mai definita “identità”, accendono il semaforo verde per i vini appiattiti sulla mediana valoriale e magari mettono invece in discussione i vini più ricchi di personalità territoriale.
Dunque, leggi e disciplinari aiutano o penalizzano la viticoltura?
Non la penalizzano se la filiera è pronta ad adeguarli, sempre ammesso che esistano i mezzi giuridici per farlo, man mano che ci sono necessità di salvaguardia identitaria indotti da fattori esterni, quale è ad esempio il cambiamento climatico in corso, che obbliga i vignaioli a inventarsi quotidianamente fantasiosi artifici per stare dentro alle rigide norme del disciplinare: penso ad esempio al parametro dell’acidità, quanto mai anacronistico.
Non sono invece a mio avviso accettabili quei cambiamenti di regole orientati esclusivamente a “inseguire il mercato”.
I disciplinari, insomma, vanno interpretati come un legame alla tradizione di un certo territorio, da intendersi come un valore identitario che ha certamente bisogno di manutenzione, ma non di forzature.
Sono quindi un plus, non un peso.
Articolo originariamente pubblicato il 14 ottobre 2013