Negli ultimi mesi, mi sono pervenute varie segnalazioni di vini, prodotti da alcuni vignaioli che sono usualmente e pressoché universalmente riconosciuti nel novero dei migliori interpreti dei rispettivi territori, che sono stati inesorabilmente bocciati dalle commissioni di degustazione delle società di certificazione delle rispettive denominazioni di origine. Ora, io comprendo che chi sostiene il ruolo di tali commissioni obietti che, dal punto di vista quantitativo, nel tempo i vini risultati indegni di fregiarsi delle varie denominazioni siano stati statisticamente pochi, e tuttavia mi meraviglia che tra quei pochi ci siano sempre più di frequente quelli di produttori che si distinguono per la loro attenzione all’espressione non omologata del potenziale dei rispettivi territori. Temo che siamo di fronte a un cortocircuito filologico, che spinge inesorabilmente fuori dalle denominazioni di origine alcuni dei loro interpreti più originali, mentre invece occorrerebbe dare nuova linfa alle denominazioni stesse, che in molti casi di dibattono in crisi sempre più marcate.
Io resto del mio avviso, ossia che per poter imbottigliare un vino sotto l’insegna della denominazioni di origine dovrebbe bastare il rispetto oggettivo delle condizioni chimico-fisiche imposte dalla legge e dal disciplinare di produzione (legge e disciplinari possono introdurre ulteriori parametri, se quelli esistenti non fossero ritenuti sufficienti), e non vedo dunque perché ci si debba continuare ad affidare al giudizio umanamente soggettivo di un piccolo gruppo di assaggiatori, la cui maggioranza è molto spesso costituita da enologi che producono a loro volta vini di quella stessa denominazione e che dunque probabilmente riconoscono nel loro lavoro una sorta di benchmark, come del resto troverei del tutto naturale che fosse, e individuano invece in altri stili, magari anche border line, degli scostamenti più o meno significativi, che tendono ad escludere. Non ci vedo, in questo, alcuna malafede, e anzi apprezzo l’impegno dei commissari che prestano il loro tempo alle varie commissioni di assaggio, ma quanto meno occorrerebbe che essi stessi potessero beneficiare, da parte delle società di certificazione, di costanti incontri di aggiornamento su quanto accade nel panorama globale del vino e su quali tendenze si siano formate o si stiano formando. La qual cosa, invece, accade assai raramente.
A volte, quando verso nel calice certi vini stranieri, sobbalzo quasi sulla sedia pensando al fatto che, forse, se tali vini fossero stati sottoposti alle commissioni di certificazione italiane, sarebbero stati bocciati, perché imperfetti sotto il profilo tecnico. Per esempio, mi è capitato di recente con il Fleurie 2020 di Julien Sunier, vigneron “naturale” del Beaujolais di cui acquisto i vini con una certa frequenza, pur con le loro dissonanze stilistiche. Anche stavolta, questo Fleurie è parso, a me, come a chi lo beveva con me, connotato da alcuni più o meno palesi scostamenti rispetto agli stilemmi della bella grafia enologica, e in effetti si presentava un po’ velato e aveva un che di acidità volatile e forse anche una traccia di quelle devianze olfattive che di solito si tende ad attribuire all’azione del brettanomyces. Però, l’avrei riconosciuto fra mille come un Fleurie, da tanto era netta l’adesione che dimostrava all’identità della propria denominazione di origine. Ecco, se avessi il potere e la facoltà di agire, un vino come questo lo farei provare e riprovare a chi presti il proprio tempo e il proprio impegno alle commissioni italiane di degustazione, per far capire che quel che conta non è tanto e non è solo l’identità enologica, bensì il rispetto delle prerogative fondamentali del terroir, o almeno questa è la mia impostazione. Questo è un perfetto, imperfetto Fleurie, e si fregia della denominazione di origine. Poi, può piacere o non piacere, ma è una questione di gusto, e il gusto di può affinare con la conoscenza.
Fleurie 2020 Julien Sunier
(89/100)