Vi supplico, chef, aridatece i piatti piatti

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“Aridatece er puzzone” si leggeva sui muri di Roma dopo la guerra. Gli scontenti del nuovo, si sa, ci son sempre: si stava meglio quando si stava peggio lo dicono in tanti a ogni svolta sociale o politica, così come a fronte della “nuova” era repubblicana qualcuno rimpiangeva il ventennio.
Ora, non vorrei che i miei dodici lettori m’affibbiassero il cliché di nostalgico, ma dopo aver girato ristoranti su ristoranti mi vien voglia di gridare “aridatece i piatti piatti”. Intendo le stoviglie con l’orlo basso, che ci si possa lavorar sopra di forchetta e coltello e cucchiaio senza doversi contorcere. Ché adesso in certi posti mangiare è un’impresa ginnica. Il colmo m’è successo quest’estate: dessert servito in un calice dal gambo così lungo ch’era impossibile intingerci il cucchiaio senz’alzarsi in piedi. Bicchiere bellissimo e costoso. Dolce gradevole. Ma far fatica per metterne in bocca una cucchiaiata, questo no e poi no.
Che volete, so che rischio di far la parte del conservatore, ma attendo con terrore l’avvento di quella che Davide Paolini, food writer del Sole 24 Ore, ha definito in un recente incontro a Verona come la nuova moda montante: cibo & design. Del resto già arrivata nei ristoranti delle maggiori città italiche e forestiere. Tant’è che il Gambero Rosso gli ha dedicato uno speciale.
Sia chiaro. Amo il design. Mi piace l’architettura che s’esprime attraverso la concettualità. Credo siano le espressioni più alte dell’arte dei nostri tempi. Adoro le forme essenziali degli arredi di Philippe Stark e dei suoi emuli e colleghi. Vorrei riempir casa di bicchieri e tazze e oggetti da cucina che esprimano creatività. Metterei seggiole in policarbonato dappertutto. Son portato a buttar via soldi in cose che non userò mai, ma che m’attraggono per forma, stile, genialità. Così pure resto estasiato davanti a una pietanza ben presentata e modellata e servita in tavola. Ma, vivaddio, voglio comodità, praticità, essenzialità. Poter liberamente usare la posateria. Portare il cibo alla bocca senz’impicci. Trovar nel piatto solo roba da mangiare, mica orpelli messi lì perché qualcuno li ritiene belli da vedere. Santoddio, il piatto, in tavola, serve per posarci dentro la roba che si mangia, mica per far da ripostiglio o da fioriera. Niente ninnoli, niente fiorellini, niente roba non commestibile, niente cespi inutili d’erbette officinali: niente che non riguardi la ricetta nel mio piatto, please.
Quando sto pranzando-cenando pretendo di poterlo fare senza dover leggere prima il libretto delle istruzioni. Non accetto che i cuochi (pardon, chef) ci prendano per una manica di zotici campagnoli (sospetto che talvolta se la ridano sotto i baffi) se non riusciamo a capire come cavolo si debbano tagliare, spezzare, sorbire le loro pietanze. Porca miseria: al ristorante ci vado prima di tutto per i sapori. Se poi è contento anche l’occhio evviva evviva e applausi. Ma mica sono lì per ammirare una scultura. Vogliono far gli artisti delle forme plastiche? S’aprano bottega d’arte, espongano in galleria, ma non pretendano che li veneriamo al ristorante. In fin dei conti, da loro ci andiamo soprattutto per commetter peccati di gola.
Poi, abbiano il buon gusto, i novelli creativi della tavola, di lasciarci mangiare per davvero quel che ci propongono. Penso a certi fondi, talvolta sublimi, che accompagnano ravioli o carni o pesci. Ci penso con rimpianto, ché non sono riuscito a papparmeli. Perché – vi siete accorti? – mai che mettano sulla tovaglia un cucchiaio da salse. Così quelle delizie di sughetti m’è puntualmente toccato di lasciarle lì, nel fondo d’una ceramica dalla sagoma di zuppiera, d’una ciotola troppo profonda. Ecché, a casa loro mangiano i sughi con forchetta e coltello? Così ti tocca rinunciare. O cercare di far la scarpetta col pane. Che però non è facile. Primo, perché t’attireresti il dispregio dei commensali, facendo la figura del cafone. Secondo, perché il pane in tavola non c’è: al suo posto, quadretti di pasta croccante, filiformi grissini di strane farine, roba buona (caspita, s’è buona), ma inutile per far zuppetta.
Vi prego, vi supplico cuochi amici&nemici: datemi anche un cucchiaio, la volta prossima che mi vedete, ch’io possa gustare i vostri intingoli. E visto che ormai sono in ginocchio avanti a voi, ripeto implorante: rivoglio il piatto piatto. Giuro: non lo dirò a nessuno che me l’avete posato sul desco. Ma lasciatemi mangiare in pace, con piacere. Vi bacerò. Sulla guancia. Ovvio.

articolo originariamente pubblicato il 24 giugno 2005