L’ossessione del brett anche quando il brett non c’è

vino_rosso_calice_tavolo_grezzo_500

Tra chi fa e chi beve vino, in molti hanno la sacra repulsione per il brett, come viene confidenzialmente chiamato il brettanomyces, un lievito responsabile di odoracci che si annida nelle botti e nelle cantine. È qualche cosa di simile a un’ossessione, quella anti brett. I “vini brettati” vengono visti con immediato disgusto, e in effetti non è piacevole avere a che fare con dei calici da cui provengono puzze che ricordano la sella di cavallo, il pelo di cane bagnato, il piscio di topo, il sudore di ascella, il rigurgito di poppante, insomma, la serie dei descrittori più o meno disgustosi dei difetti da brett.

Solo che tra alcuni quell’ossessione è talmente radicata che il brett lo sentono ovunque, anche laddove proprio non c’è, e sparano sentenze inappellabili ad ogni traccia di selvaticità, e questa è una cosa che faccio sinceramente fatica a sopportare, anche se non l’ho mai detto prima. Insomma, basta che un vino abbia un che di selvatico, cosa che talora può caratterizzare certi rossi tratti da varietà antiche, magari anche da vigne molto vecchie, perché scatti l’anatema e si dica che è brettato. Anche se il vino brettato non lo è, e anzi quella sua selvaticità, tratteggiata e per nulla fastidiosa, se bene integrata, non solo non è un difetto, ma è anzi una prerogativa identitaria.

In un incidente del genere sono incorsi di recente i componenti del gruppo di degustatori di una serissima rivista enologica estera, che hanno condannato come brettato un vino rosso francese ottenuto da uve della varietà antica del prunelart, tipica del territorio di Gaillac, che si trova in Occitania, nel Sud Ovest della Francia. Invece il vino, analisi alla mano, non aveva traccia di brett. Il produttore, infatti, se n’è avuto un po’ a male e ha scritto alla testata, dicendo che, sì, in passato qualche problema di brett ce l’aveva avuto, ma adesso assolutamente no, tant’è che il vino è stato sottoposto ad analisi prima dell’imbottigliamento e non vi è alcuna presenza di brettanomyces. Al che, correttamente, la redazione ha ammesso di aver preso un abbaglio, e ha proposto un nuovo assaggio.

Ovvio che ci sia poca esperienza con un’uva come il prunelart, che non sia così frequenta incontrarla. Ma l’episodio a me è parso la conferma di quanto ho detto sopra, ossia quel pregiudizio che bolla immediatamente come brettato qualunque vino che presenti delle connotazioni olfattive un po’ anomale, e che magari, invece, sono del tutto caratterizzanti di un certo vitigno. Oggi che numerose varietà antiche vengono riscoperte un po’ ovunque, dando vita a vini piuttosto inusuali, con i quali anche il degustatore più esperto ha per forza poca esperienza, suggerirei di abbandonare i pregiudizi. O meglio, quelli vanno abbandonati sempre, ma a maggior ragione quando ci si avventuri in territori del gusto totalmente nuovi. Si rifletta con pazienza, si mediti con prudenza, ci si prenda del tempo, ci si lasci consigliare dal dubbio, si valutino tutti gli aspetti tattici e organolettici del vino, prima di bollare un vino per un difetto che tale non è.

Detto questo, faccio un annuncio. Ossia che non mi modererò più, in casi del genere. Difficile restare moderati quando non c’è moderazione.


1 comment

  1. Maurizio Onorato

    Ma di che ti vuoi stupire Angelo, se spesso sento pontificare “sa di tappo” degustando vini con chiusura in vetro a vite Stelvin? Con quest’ossessione di viti tolettati ci toglieranno anche il piacere di un Gevrey Chambertin, che nel suo ridotto e sentori selvatici assortiti (ovviamente senza esagerare!) racchiude una fiera nobiltà contadina terragna e orgogliosa? Se anche nel vino arriva la superfetazione del “politically correct” che rasenta l’idiozia allora tanto vale che passiamo tutti al “bibitame” industriale, indifferente alle stagioni e sempre uguale (al ribasso) a se stesso. Tieni duro Angelo: sei tutti noi, come si diceva in tempi d’antiche tifoserie.

Non è possibile commentare