Il Monte Fiorentine, l’identità e le temperature

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Un anno fa, scrivendo del Monte Fiorentine 2018 di Cà Rugate, dicevo di come questo vino paradigmatico del Soave Classico avesse messo in atto una decisa sterzata verso l’accentuazione delle proprie prerogative territoriali, facendo leva in sostanza su quattro elementi, ossia il frutto opulente della garganega, la tensione acida del trebbiano locale, la mineralità sulfurea dei suoli vulcanici e l’età delle vigne, divenute più che cinquantenni. Ne trovo conferma ora che ho nel calice il vino dell’annata 2020, nel quale il connubio tra la vulcanicità del territorio collinare soavese e il fruttato varietale, denso e quasi macerato della garganega è immediatamente percepibile, innervato da un’apprezzabile vena acida, magari meno esposta rispetto al precedete assaggio, ma va da sé che ogni annata deve – sottolineo, deve – possedere un proprio tratto identitario, se il vino ne vuole essere realmente interprete.

Mi spingo a fare un’altra considerazione, prendendo spunto da questo Monte Fiorentine. Ossia che a mio avviso il Soave più marcatamente territoriale, com’è questo, ha bisogno di una certa attenzione nella temperatura di servizio. Riesce infatti a dare il meglio di sé quando sia servito fresco e non freddo. Direi perfino alla temperatura di cantina, non molto sotto. Lo so che può sembrare eretico o bizzarro raccomandare che un bianco non sia freddo, ma quando le tipicità dei suoli e delle uve indigene trovano una simile espressione nel vino, le temperature più basse, per me, gli sono improvvide, limitandone la piena e più stimolante – e appagante – espressione.

Soave Classico Monte Fiorentine 2020 Cà Rugate
(90/100)

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