Il futuro passa dai vitigni resistenti (spero nel pnrr)

villaris_500

Il regolamento europeo 2021/2117 dello scorso 2 dicembre ha socchiuso le porte all’utilizzo delle varietà resistenti, le cosiddette piwi, per i vini a menzione geografica. Dico che le ha “solo” socchiuse perché non c’è – ovviamente – alcun automatismo, ma, come spiega bene Millevigne in un articolo, per introdurne l’uso servono eventualmente tre passaggi, ossia l’iscrizione del vitigno nel registro nazionale delle varietà di uva da vino, l’autorizzazione regionale alla coltivazione e la modifica eventuale del disciplinare di produzione della singola denominazione di origine o indicazione geografica. Un percorso tortuoso, ma volendo ci si può provare.

Tra le regioni, la più avanzata in questo processo è il Veneto, che ha già in elenco una ventina di varietà da incrocio interspecifico, ma, salvo mio errore, non mi pare che vi sia mai stato inserito il villaris, un’uva a bacca bianca. Parlo di questa varietà piwi perché ne ho recentemente assaggiata una bottiglia e ne sono rimasto piuttosto impressionato. Ha infatti un’aromaticità molto ben definita, vorrei dire “moderna“, tra il tropicalismo (non il verde) del sauvignon blanc e il profumo rosaceo del moscato bianco. Fatto secondo lo stile lieblich, amabile, che piace ai tedeschi, bilancia molto bene gli zuccheri con un’acidità stimolante. Ho fatto riferimento al gusto tedesco perché la mia bottiglia viene dalla Germania. È un vino della landwein (definizione che corrisponde ai nostri igt) Schwäbischer, nella regione sud-occidentale del Baden-Württemberg. La producono gli studenti e gli insegnanti dell’università di Hohenheim (è un sobborgo di Stoccarda), riconosciuto come miglior ateneo tedesco nel campo della ricerca agricola, e anche questo è un fatto molto, molto significativo. Vuol dire che nel mondo accademico tedesco alle varietà resistenti ci si crede, e non solo in teoria.

Credo che il villaris potrebbe esprimersi bene anche da noi, in uvaggio, conferendo quel pizzico di gentile aromaticità che lo caratterizza. La questione, semmai, è – come dire – tra il filosofico e il politico. Le varietà resistenti vengono viste tuttora con sospetto, qui da noi, e capisco che ci sia chi invoca alla prudenza. Ma, come ha scritto Maurizio Gily sempre su Millevigne, in viticoltura “il rifiuto di certe innovazioni è ancora meno logico perché, se non si hanno pregiudizi legati al concetto stesso di genetica, grandi controindicazioni si fatica davvero a vederne”. Se il problema è la drastica riduzione dell’impatto ambientale della viticoltura, le varietà resistenti sembrerebbero la soluzione praticabile, purché, anche qui, con le dovute cautele. La prima fra le cautele è quella di farle ricadere nel patrimonio pubblico, in modo da evitare posizioni monopolistiche da parte dei produttori privati dei brevetti, con conseguente cappio al collo dei viticoltori. Occorrerebbe dunque investire in ricerca pubblica, e gli investimenti in ricerca, in Italia, sono sempre in affanno. Giusto per dire, in Germania i vini piwi vengono fatti in università, come si è visto, e vengono fatti molto bene, creando mentalità negli studenti e in Francia è lo stesso presidente della Repubblica, Emmanuel Macron, ad annunciare un massiccio investimento in ricerca sui vitigni resistenti, invitando “a lavorare su questi programmi che sono essenziali e per adattarsi attraverso la ricerca alle transizioni e ai cambiamenti climatici”. Lo ha ribadito solo pochi giorni fa, quand’è stato premiato dalla Revue du Vin de France.

Tra le ricerche possibili, la prima e la più urgente, stanti i tempi presumibilmente lenti di successiva eventuale applicazione empirica e le mutazioni climatiche in atto, che invece sono in accelerazione, sarebbe quella, a mio avviso, di estendere l’analisi sulla possibilità che si conferisca maggiore resistenza alle varietà autoctone, anche se questo temo che per moltissimi sia tuttora un pregiudiziale argomento tabù. Peraltro, ai vitigni autoctoni resistenti ci si sta lavorando e chissà che nelle pieghe del piano nazionale di ripresa e resilienza non si possa trovare qualche soldino per far fare una passo avanti a questo genere di attività. Più resistenti uguale meno trattamenti, il che vuol dire maggiore sostenibilità sociale, ambientale ed economica. Insisto, con la prudenza dovuta.

Intanto, torno al vino sperimentale dell’Università di Hohenheim. Esperimento perfettamente riuscito.

Schwäbischer Landwein Villaris Lieblich 2018 Universität Hohenheim
(88/100)