Del Canavese, ossia dei vini di morena

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Sono nato sul limite nordorientale delle colline moreniche del lago di Garda e dunque in vita mia ho sempre bevuto i vini di morena. I vini di morena – di qualunque area morenica, e dunque di cerchie collinari formate da antichi ghiacciai – li riconosci perché hanno una progressione tattile che è fatta in tre tempi più uno. La prima fase è quella dell’acidità, la seconda del sale, la terza si connota con il finale che è asciutto e perfino delicatamente tannico; poi c’è il ritorno, lungo, del sale. Forse sarà per la mia indole morenica che sono affascinato dai vini del Canavese, che è un’altra terra di morene, come il Garda. Ci sono stato di nuovo, di recente, per prendere parte a REWine, l’appuntamento annuale di quella che, per noi bevitori, è quella grazia del cielo costituta dall’associazione dei Giovani Vignaioli Canavesani. Dico che è una grazia del cielo, perché questi giovanotti e giovanotte di venti e più mini cantine stanno dettando un nuovo paradigma, tutto basato sull’entusiasmo e sull’appartenenza, che li sospinge a riscrivere la storia vinicola del loro territorio. Non ho dubbi che, insieme a Cirò, grazie a loro il Canavese sia il nuovo che avanza del vino italiano, e in tal senso ne ho parlato più volte a dei colleghi americani che mi chiedevano quali fossero le novità più gustose dentro alla pentola più o meno tumultuosa della nostra cultura vinicola.

Nel corso di REWine ho percepito che le morene non sono tutte uguali, anche se il carattere dei vini è trasversale a tutti i territori morenici. Di certo sono diversissime le morene del mio lago di Garda e quelle del Canavese. Le mie sono più omogenee nella loro dismogeneità turbinosa dei suoli. Quelle dell’anfiteatro d’Ivrea, “le plus considérable des amphitéatres de la glaciation alpine“, come sosteneva il geologo tedesco Albrecht Penck, sono come divise in due macro sezioni: le morene frontali, più sciolte, e quelle laterali, più compatte, e di tale compattezza è emblematico l’andare della Serra di Ivrea, trasversale, dritta e lunga cicatrice pressata dai ghiacci antichi che discesero quello che oggi è l’alveo della Dora Baltea. Guarda caso, sulle morene frontali si coltiva l’erbaluce, bianca, e sulle laterali il nebbiolo, rosso. Però, ragazzi miei canavesani, smettetela d’incaponirvi a parlare di vitigni. Quel che conta sono il suolo e il suo clima e soprattutto la maniera in cui il suolo e il clima li si interpreta attraverso un vitigno o più d’uno. Il vitigno è un accessorio. Avete mai sentito un vigneron borgognone discutere di pinot nero e chardonnay? Parlerà di appellation, dei cru, dei climat, mai di vitigno.

In realtà, la situazione geologica del Canavese morenico è più complessa. Durante REWine se n’è avuta plastica testimonianza tramite due relazioni illuminanti, di cui credo e spero che i primi a prendere debita nota saranno proprio i giovani vignaioli, perché si tratta delle fondamenta teoretiche su cui costruire il futuro con solida concretezza. La prima lezione è stata quella del geologo Franco Gianotti, che ha illustrato la struttura a tre lobi che ebbe il ghiacciaio balteo, i conseguenti quattro settori dell’anfiteatro, ossia le cerchie moreniche vere e proprie, la conca interna, i colli di Ivrea e i pianalti esterni – con la vigna che ha conquistato le prime due sezioni – e le diverse età delle morene canavesane. Tutte informazioni da memorizzare e tenere sempre in testa per chi faccia vino in quelle terre e anche per chi di quei vini vada alla ricerca, perché quella complessità nei vini la si deve riscontrare, vivaddio, e se non la si ritrova nel bicchiere, allora vuol dire che c’è qualcosa che non va nel vino. Il secondo intervento da passare a memoria è stato quello di Alberto Cugnetto, specialista in viticultura ed enologia, che ha messo a fuoco i sette paesaggi viticoli alpini che caratterizzano il Canavese secondo la classificazione nel progetto della Route des Vignobles Alpins, ossia  – li cito uno per uno – il paesaggio della “viticoltura eroica”, tipica dell’areale intorno a Carema, quello della Serra di Ivrea e dei suoi piccoli laghi, quello delle colline moreniche propriamente dette, e poi i vigneti residuali nella piana del catino morenico, la collina morenica frontale, il cosiddetto mosaico colturale collinare e infine le valli del Canavese. Una simile, complessa diversità viticola deriva dall’articolazione geologica e nel contempo la compenetra, formando il caposaldo dell’identità dei vini locali. Altro che vitigni. Poi, ci sta – dico io – che, nella storia, le popolazioni locali abbiano scelto l’erbaluce per i bianchi e soprattutto il nebbiolo per i rossi, ma le uve sono solo strumenti.

Ecco, quel che mi aspetto, nel lavoro già straordinario che stanno realizzando i Giovani Vignaioli Canavesani, è che si focalizzino sempre di più sulle diversità zonali, che le mettano a fuoco e ci accendano sopra i riflettori, senza intestardirsi sulle varietà e sfuggendo all’insidia delle nomenclature vitivinicole: prima di pensare alle menzioni geografiche aggiuntive, che ho sentito aleggiare nei giorni che ho speso con loro, è necessario che le diversità si ritrovino, nette, nei vini, sapendo che non basta una manciata d’anni a portare a compimento questo percorso identitario. Vorrei, insomma, che nei vini di morena si avvertisse la morena, e che le diversità degli ambienti morenici fossero altrettanto perfettamente percepibili. Vorrei che i vini incominciassero ad essere rappresentati non già per doc o igt, bensì per singola porzione geologica e viticola. Gli strumenti cognitivi su cui basarsi ci sono, dunque è su questi che è necessario concentrarsi, ancorché i vini siano già, molte volte, buonissimi. Se i Giovani Vignaioli Canavesani riuscissero in quest’impresa, che è da far tremare i polsi, Carema e il Canavese entrerebbero per certo, nei prossimi decenni, tra le zone vinicole più ambite d’Italia. Del resto, da quelle parti l’ingegno materializza i miracoli: basti pensare a quel che fu l’Olivetti per Ivrea e per l’intero territorio. I cromosomi buoni ci sono.