Pare che il nome di Colà, frazione del comune veronese di Lazise, derivi da quello del pagus Claudiensium, ossia del villaggio abitato dagli appartenenti alla gens Claudia. Non ho sufficienti conoscenze storiche per sostenere la legittimità o il torto di una tale ipotesi. C’è peraltro chi sostiene che Colà sia stato uno dei primi nuclei della propagazione della viticoltura del Garda e qualora l’origine dal villaggio dei Claudi fosse veritiera, la tesi sarebbe sostenibile, giacché fu nell’epoca imperiale che i romani antichi, conquistata la Gallia Cisalpina, nella quale ricadeva il lago, vi diffusero la viticoltura e l’uso del torchio da vino.
Riporta nell’etichetta il nome del Pagus Claudiensium un vino bianco dell’igt Veneto prodotto da Damiano e Daniele Bergamini nella loro cantina di Colà. (Per inciso, Damiano, enologo, è oggi anche sindaco del Comune di Lazise.) Si tratta di un vino del tutto atipico rispetto agli altri che si producono in questo pezzo di terra al confine, sovrapposto, delle denominazioni del Bardolino e del Custoza. Infatti, non ha quell’impronta salina spiccatissima che accomuna entrambe le menzioni geografiche. È invece un bianco che in un bicchiere nero, nel quale non si veda il colore, potresti dire rosso, per quel suo carattere austero e quasi tannico. Dunque, un’anomalia, che ha forse origine non già nell’epoca romana, bensì in quella veneziana. Infatti, fra l’inizio del Quattrocento e l’arrivo di Napoleone, sul finire del Settecento, Lazise, come tutto il Garda, fu possesso della Serenissima Repubblica di Venezia, che vi portò il culto di san Marco, le gondole da pesca, le barche da regata chiamate bisse e altre consuetudini. Forse vi trasferì anche un vitigno che oggi è presente con il medesimo nome solo nella laguna veneziana e nei dintorni di Colà: si chiama dorona. Dico “forse” perché, in assenza di studi storici dettagliati e precisi, tutto è opinabile, e dunque potrebbe essere vero il contrario, ossia che la dorona sia partita dal Garda e abbia raggiunto Venezia, oppure che si tratti di uve diverse cui venne dato un medesimo nome. Mistero.
Io dico che questo bianco, fatto tutto e solo con le poche vigne di dorona che ancora sono coltivate dai Bergamini, va bevuto e gustato con il palato e con l’intelligenza, perché racconta di un gusto a lungo reietto e oggi tornato d’attualità con l’avvento dei cosiddetti orange wine. Infatti – al di là della doratura leggera del colore, derivante appunto dai tempi di contatto del mosto con le bucce dorate dell’uva – questo vino evoca dei sentori macerativi di buccia di mela renetta e di pera abate stramatura, cui s’interseca, con costanza, la memoria della pasta frolla (ma affatto dolce) e dei fiori essiccati della camomilla, sino al finale che vira sottilmente verso la mandorla. Secchissimo e gastronomico, rinnova tempi e sapori lontani, e rappresenta pertanto, di per sé, un’operazione di valore per il ripristino di antiche culture materiali; per di più, lo fa con ottima gradevolezza. Le bottiglie, ovviamente, sono pochissime.
Veneto Bianco Pagus Claudiensium 2021 Bergamini
(88/100)