Agli italiani manca il culto della longevità

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Al vino italiano manca il “culto della longevità”. L’ha detto Monica Larner, corrispondente dall’Italia di The Wine Advocate, una di quelle testate che fanno la differenza nel trading vinicolo, ed è una santa verità. L’ho letto su L’Enologo, l’house organ dell’Associazione degli enologi e degli enotecnici italiani.

“Al vino italiano – dice Monica Larner – manca il ‘culto della longevità’. È davvero scioccante considerare quanto recente sia la qualità del vino italiano: la prima annata del Sassicaia è del 1968, il primo Tignanello è del 1971 e il primo San Leonardo risale al 1982. Il Barolo e il Barbaresco hanno più successo presso i frequentatori delle case d’asta proprio perché la loro storia è molto più significativa. L’Italia non ha la massa critica di marchi affermati che la Francia ha sviluppato nel corso dei secoli con affidabili registri dei tempi di invecchiamento in cantina”.

Vero, tutto assolutamente vero, ed è uno dei grandi limiti del vino italiano. Certo, la stragrande maggioranza delle aziende italiche – checché ne dicano i siti internet aziendali, spesse volte più bugiardi d’un bugiardino – ha pochi anni d’età. La strada della qualità l’Italia l’ha intrapresa solo dopo lo scandalo del metanolo, e dunque nella sostanza a partire dai primi anni Novanta.

Poco, molto poco. Eppure sarebbe bastato che sin da allora i produttori avessero messo da parte un po’ delle loro bottiglie, anno dopo anno, in modo da creare un archivio. Invece niente: sono tuttora una piccolissima minoranza quelli che mettono via un po’ di vino. Ma per chi si occupa di vino fuori dai confini italici, chiedere di assaggiare più annate della stessa etichetta è la norma, possibile non lo si voglia capire che questo è il primo vero, serio investimento da fare in cantina?

Articolo originariamente pubblicato il 30 aprile 2014


1 comment

  1. Umberto Cosmo

    Non credo sia proprio così. Che il vino italiano sia cosa recente rispetto a quello dei colleghi transalpini è cosa nota e scriverlo ancora a me, francamente, sembra la scoperta dell’acqua calda.
    E ugualmente discutibile è affermare che non esistano raccolte di vecchie annate all’interno delle cantine delle aziende italiane: conosco personalmente decine di collleghi in tutta Italia che queste scorte per archivio le hanno e, anche in territori come quello del Prosecco Superiore non ancora noti per la capacità di produrre vini longevi, da almeno vent’anni ci sono aziende che fanno archivio. Spero non si chieda alle aziende di tenere scorte di vecchie annate da mettere sul mercato: questo non è il nostro lavoro. Noi facciamo uscire un vino quando lo riteniamo pronto e poi sta ai nostri clienti, se lo desiderano, tenerlo in cantina per rivenderlo in momenti più lontani.
    Ma vi assicuro che scorte per delle verticali ce ne sono!
    Piuttosto il problema sta nell’inveterata abitudine, non solo italiana, di avere sempre la novità, di avere il vino che “spacca” già pochi anni o, più spesso, mesi dopo la vendemmia. È la rincorsa della notizia che non lascia la pazienza a molti di pensare alla costruzione di vini longevi.
    Siamo davvero sicuri che un vino prodotto velocemente, senza la necessaria maturazione, spesso ricorrendo a quelle pratiche lecite ma non etiche che ogni tanto si scoprono sui giornali, sia poi un vino che nel tempo sa maturare con eleganza?
    Ci possono essere alcuni fortunati esempi di vini godibili subito e che sanno maturare bene, ma, come per gli umani, più spesso è necessario un periodo di formazione più o meno lungo per esprimere al meglio le capacità intrinseche di ognuno, vino o essere umano che sia!
    Il vino longevo, il vino da biblioteca, richiede pazienza e attesa e questo mal si concilia con la necessità di averlo pronto in un preciso momento per la degustazione della guida di tizio o di caio, con la necessità di soddisfare un mercato affamato di semplicità, perché il vino che dura, duole dirlo, non è per tutti!

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