Per fare il vino ci vuole l’acqua (per lavare l’uva)

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Ve la ricordate quella filastrocca di Gianni Rodari che venne messa in musica da Sergio Endrigo? “Per fare l’albero ci vuole il seme, per fare il seme ci vuole il frutto, per fare il frutto ci vuole un fiore”. Ecco, se si trattasse di vino bisognerebbe dire che per fare il vino ci vuole… “L’uva!”, so che direste. Invece no, per fare il vino ci vuole l’acqua. O meglio, ci vogliono l’uva e anche l’acqua che serve per lavare via dall’uva ogni sorta di impurità. Anche dall’uva che viene dai vigneti bio, quelli trattati solo con zolfo e rame. Così la pensano a Cà del Bosco, celeberrima griffe franciacortina, e su questa cosa dell’uva lavata ci hanno investito una valanga di soldi.

Sono stato a vedere l’impianto. Impressionante. L’uva arriva in pallet, ogni pallet ha un microchip che memorizza la provenienza e la data di raccolta. Scaricati dai trattori, le casse vengono affidate a un robot che analizza il livello di maturazione e porta l’uva in cella refrigerata, “archiviandola” a otto gradi di temperatura per poi mandarla alla pressa con altre uve omogenee, e comunque mai oltre le ventidue ore dalla raccolta. Quando è il momento, il robot estrae dunque il pallet dalla cella e lo invia all’area di cernita (l’unica operazione manuale di tutto il ciclo) e da lì ai tre lavaggi automatizzati: prima solo acqua per eliminare ogni impurità, poi acqua e acido citrico per sanificare l’uva, quindi il risciacquo. Adesso è il turno dell’asciugatura, che toglie mediamente il 99,6% dell’umidità accumulata nel lavaggio. Solo allora l’uva va in pressa. Dalla cernita alla pressa passano appena cinque minuti. A ogni passaggio l’impianto viene sterilizzato. Niente ossidazioni, niente difetti. Tre linee di lavaggio riescono a lavorare duemila quintali di uva ogni ventiquattro ore. In dodici giorni si trattano tutti e venticinquemila i quintali di uva prodotti in azienda. Tecnologia italiana, un’implementazione dei sistemi di lavaggio delle insalate in busta dei supermercati. Impressionante, ripeto.

Perché mai tutto questo gran daffare per lavar l’uva, lì a Cà del Bosco? Me l’ha spiegato il patron Maurizio Zanella. L’idea nacque nel 2008, quando si decise di passare alla viticoltura bio. “Il biologico – mi ha detto – è un grande passo avanti per preservare i terreni per le future generazioni, ma è anche un passo indietro per la pulizia dell’uva, e questo comporta problemi fermentativi, perché rame e zolfo hanno difficoltà a staccarsi anche dopo una pioggia”. Come ovviare? Facendo come si fa per qualunque altro frutto: lavandolo. “Nel mondo del vino – ha chiosato Zanella – l’idea di usare l’acqua sembra blasfema, ma con il lavaggio abbiamo ridotto vicino a zero i residui di rame e zolfo”. Trovare il giusto sistema di lavaggio è stata un’impresa. Il nuovo impianto, entrato in funzione per la vendemmia del 2018, è ritenuto definitivo, ed è alla terza versione. Mastodontico. Chapeau.

Ovvio che a Cà del Bosco non ho mica solo visto la linea di lavaggio e le presse. Ho anche avuto l’occasione di assaggiare (ehm, bere) in anteprima la nuova annata del Franciacorta Riserva Annamaria Clementi, la 2009.

Con il millesimo 2008 c’era stata una rivoluzione, ché fu deciso di non dosare il vino. L’edizione 2009 rappresenta un altro passo in avanti, una splendida interpretazioni del metodo classico italiano, e franciacortino, ça va sans dire.

Avete presente quell’inebriante profumo di pane appena sfornato che si avverte passando accanto a un forno la mattina presto? Ecco, l’ho ritrovato nel calice. Poi, un tripudio di fruttini di bosco, succosi e croccanti insieme. e fiori e sale. Una beva compatta eppure suadente. E che finezza. Ed un finale terso, asciutto, di esemplare serietà.

Franciacorta Riserva Annamaria Clementi 2009 Cà del Bosco
(94/100)