I vincoli tecnici e l’identità del vino

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Nato negli anni Sessanta, quando il vino italiano necessitava di uscire dalla sostanziale anarchia produttiva dell’epoca e dunque abbisognava di una regolazione che andasse verso un miglioramento qualitativo della produzione, il sistema nazionale delle denominazioni di origine risente tuttora di quell’impostazione originaria. È infatti pieno di vincoli tecnici che poco o nulla hanno a che vedere con la valorizzazione dei caratteri identitari di un territorio vitivinicolo.

Penso, giusto per fare un esempio, all’astrusa indicazione del numero minimo di ceppi per ettaro e della resa massima in vino per ettaro, senza che sia posta alcuna correlazione fra i due parametri: è facile capire che, in termini qualitativi, c’è una bella differenza se produco 120 quintali di uva su un ettaro a 3000 ceppi o se produco sempre 120 quintali, ma su un ettaro a 6000 ceppi.

Va poi osservato che gli stessi consorzi di tutela hanno armi veramente spuntate quando si tratti di mirare all’obiettivo della valorizzazione identitaria di un territorio: per esempio, nulla o quasi nulla possono fare in termini di effettiva selezione vocazionale dei terreni, soprattutto ora che ci si trova di fronte ai risultati di quella proliferazione viticola che tra gli anni Ottanta e Novanta, in presenze di regole molto labili e facilmente impugnabili, ha visto piantare vigne su terre assolutamente inadatte, originando tuttavia una rete di “diritti acquisiti” che appare ora invalicabile.

Non solo. Applicare in Italia concetti francesi quali quelli di cru o di lieu dit è pressoché impossibile, perché i burocratismi italiani regolano in maniera meccanicistica la produzione delle cosiddette “sottozone”, alla faccia di qualunque valutazione di carattere storico, identitario, qualitativo.

Lo stesso quadro ampelografico delle denominazioni è regolato in maniera meccanicistica e burocratica, per cui è più facile aggiungere un nuovo vitigno al disciplinare che aprire ai vignaioli la possibilità di utilizzare liberamente i vitigni esistenti. Una situazione, questa, che risente ancora dell’impostazione degli anni Sessanta e che è assurda se si pensa che là dove si è fatta la storia delle classificazioni viticole questi vincoli non esistono: a Bordeaux si riconoscono i vitigni tipici, ma nessuno penserebbe mai a dire a un produttore quanto cabernet o quanto merlot deve usare per fare il suo vino sui suoi cru.

Articolo originariamente pubblicato il 14 ottobre 2013