Un vitigno, un suolo, un vino, ed è un salto culturale

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“Le colorazioni elevate non sono tipiche delle varietà autoctone”. Signori miei, questa è musica per le mie orecchie. Questo è zucchero, è miele. Perché le varietà autoctone in parola sono quelle rosse veronesi, e dunque in primis la corvina e poi anche rondinella, per non dire, ovvio, della reietta e scarichissima molinara. Lo vado dicendo in lungo e in largo: non si fanno vini scuri se si usa la corvina, perché la corvina non ha tanto colore, vivaddio. Il fatto che a sottolinearlo sia l’amministratore delegato dei Bertani Domains, Emilio Pedron, be’, è una bella conferma. Così pure, è confortante sentirgli dire che “la corvina ha una quantità di antociani che somiglia a quella del pinot nero, non a quella del cabernet”, perché – si sa – il mondo classifica i vini rossi in due categorie, quella in stile pinot noir, che è costituita dai vini meno carichi in tutto, e quella in stile cabernet sauvignon, che è fatta dai vini più carichi in tutto.

Le due affermazioni a Pedron le ho sentite fare pochi giorni orsono, quando a Novare, nel cuore della Valpolicella storica, là dove nascono le venerande bottiglie dell’Amarone Classico Bertani – che mai e poi mai è stato opulente nel colore e nello stile -, ha presentato i nuovi nati della casa, che sono due Valpolicella che intendono valorizzare, insieme, la corvina e il rispettivo “cru”. Il che rappresenta una sorta di rivoluzione sia per la Bertani, che sinora non aveva puntato ai “single vineyard”, sia per la Valpolicella stessa, che sin qui non ha investito granché nello studio delle simbiosi tra il vitigno principe – la corvina, insisto – e le proprie parcelle di terreni.

A maggior ragione è rivoluzionario oggi che, con l’ultima modifica dei propri disciplinari, la Valpolicella ha equiparato in toto il più possente (e meno fragile) corvinone alla corvina, rendendo le due varietà integralmente sostituibili l’una con l’altra, mentre era fin qui preminente la corvina. “Abbiamo perso, corvina e corvinone non sono sinonimi” ha commentato Pedron, e non vedo come non potergli dare ragione. “La nostra risposta – gli ha fatto eco Andrea Lonardi, il direttore operativo di Bertani Domains – è essere andati avanti con la ricerca sulla corvina”. Chapeau.

“L’attenzione ai suoli – ha sottolineato Lonardi – cambia il modo stesso di pensare i vini”, e così a cavallo tra il 2013 e il 2014 in casa Bertani si è pensato di dare una sterzata: prima la conoscenza dei luoghi, poi la produzione di vini coerenti coi singoli luoghi della vigna. La svolta definitiva, che è tuttavia al momento irraggiungibile, stanti i disciplinari vigenti, sarebbe quella di pensare un domani alla vocazionalità delle zone, quelle per l’Amarone e quelle per il Valpolicella. Il che non significa per forza Amarone in collina e Valpolicella a valle, perché dipende, appunto, anche dai suoli e dalla loro geologia. Ma è utopistico parlarne, per adesso.

Intanto, ecco in bottiglia i primi due nati del lavoro di analisi dei suoli sviluppato in Bertani. Un Valpolicella e un Superiore. “Sono i primi due vini di una svolta strategica che dà voce alla ‘prepotenza’ di certi cru, di certi vigneti che hanno una forza in più” afferma Pedron. Sono il Valpolicella Classico Le Miniere del 2018 e il Valpolicella Classico Superiore Ognisanti 2017. Il primo vestito d’un rubino lieve e luminoso, il secondo leggermente più porporino, ma comunque lucente e delicato. Colori molto valpolicellesi. Il primo è poi vino più mineraleggiante, ché viene da una vigna che sorge sopra ad antiche cave di ferro e pirolusite, il secondo è più croccante di ciliegia mora alla prima maturazione, e proviene dalle vigne delle balze che guardano verso la villa, accanto a un’antica chiesetta, su un plateau di calcare bianco nell’anfiteatro di Novare. Il primo col tannino più rugoso, il secondo dalla tannicità più gentile, e se assaggi le uve d’origine t’accorgi immediatamente che il vino corrisponde al frutto (e il frutto al suolo, in fondo). Il primo più contratto e perfino affumicato all’olfatto (ed è questo un carattere tipicissimo di certi vini da corvina, soprattutto in fase giovanile, e qualcheduno tende a confonderlo con una riduzione), il secondo più aperto verso il frutto e l’accenno balsamico.

Ho detto a Pedron che si tratta di una scelta coraggiosa. Verona – lo so, generalizzo, ma devo andare a sintesi – è sempre stata, in fondo, patria di uvaggi e i vini hanno sempre puntato a seguire più uno stile compositivo che non un’identità parcellare: questa è l’indole prevalente della provincia, da due secoli almeno. Pensare qui, adesso, al connubio vitigno-suolo è un salto culturale.