Valorizzate gli autoctoni o lo faranno altrove

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In Italia abbiamo una marea di varietà autoctone di vigna. Centinaia. Solo che ne valorizziamo poche, e tante volte si segue anzi la strada sbagliata, che è quella del “varietale”. Nel senso che l’attenzione è rivolta più a dichiarare in etichetta il nome del vitigno, anziché a cercare il miglior connubio tra il territorio, la varietà e la tradizione.

Insomma, noi italiani facciamo fatica a pensare ai cru, men che meno ai grand cru, e dunque non è il terroir che sta al centro del nostro pensiero. Preferiamo fare vini che sbattano in faccia al bevitore il nome dell’uva, perché questa è una scorciatoia, e a noi italiani piacciono le scorciatoie. Che possono funzionare solo nel breve periodo.

A questo proposito mi ha fatto molto pensare una frase di Jason Lett, seconda generazione di produttori alla Eyrie Vineyards, nella Willamette Valley, Oregon, Usa. L’ho letta in un pezzo di Mark Stock su SevenFiftyDaily, dove si parla del crescente interesse che da quelle parti sta suscitando la coltivazione del melon de Bourgogne. Anche se si chiama “de Bourgogne”, quella è la varietà con cui nella Loira si fa il Muscadet, un vino che in alcuni casi è strepitoso (ne adoro certe salatissime versioni “sur lie”), ma che molto più spesso è uno scipito bianchettino da supermercato fatto in grandi volumi. “Non mi pare che il melon abbia trovato dei veri grand cru in Europa, il che lascia campo aperto all’Oregon”, ha detto Jason Lett. E mi è corso un brivido lungo la schiena, perché è proprio così. Se ti accontenti di fare, col tuo autoctono, dei vinelli di poco conto, senza impegnarti a valorizzarne il terroir, ci proverà qualcun altro, da qualche altra parte del mondo. Perché il mondo è grande, e le combinazioni di suoli, climi, varietà e idee possono essere tantissime.

Sarebbe meglio pensarci. Spesso.


1 comment

  1. Luigi Sandri

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