Qualche tempo fa mi chiedevo, retoricamente, se una denominazione di origine possa essere obbligatoriarmente dedicata in toto alla viticoltura biologica, stante che richieste simili sono state avanzate in Italia e in Francia, ricevendo in entrambi i casi un rifiuto dalle rispettive autorità nazionali. Salvo sorprese che dovessero verificarsi sul fronte nazionale o su quello transalpino, ritengo pressoché impossibile che possa intervenire un’approvazione di una simile richiesta, perché, come già spiegato dai rispettivi organismi nazionali in sede di diniego, il biologico ha un protocollo indipendente rispetto al disciplinare della denominazione, e dunque, in caso di variazione del protocollo bio, la denominazione di origine – fonte primaria del diritto per chi intenda fare vino a denominazione di origine – sarebbe soggetta a decisioni che le derivano dall’esterno. Il che non è evidentemente possibile.
Dunque, che fare, se tutti i produttori di una zona fossero già bio e volessero che la loro denominazione fosse integralmente riconosciuta come biologica? Rinunciare o andare avanti comunque a testa bassa? A mio avviso, né l’una, né l’altra, perché la prima opzione sarebbe l’accettazione di una sconfitta e la seconda – temo – un’improduttiva testimonianza. Invece, volendo, una strada percorribile c’è, e si basa su due provvedimenti coordinati e complementari, anche se capisco che un percorso del genere possa non piacere del tutto a chi ambisca a un riconoscimento diretto e univoco.
Il primo dei due passi – attenzione, il primo, non l’unico passo! – è quello di incorporare nel disciplinare di produzione della denominazione di origine tutte le norme agronomiche e produttive previste dal protocollo bio, nessuna esclusa, senza tuttavia citare il protocollo bio. La proposta va approvata dall’assemblea dei soci del consorzio di tutela, e se tutti i soci sono già bio, non vedo problemi ad approvarla. Parimenti, non vedo sostanziali problemi approvativi da parte delle autorità governative, in quanto non ci sita un protocollo terzo. Si obietterà che quest’intervento non risolve il problema, perché il disciplinare, in questo modo, non è formalmente bio. Vero, ma ricordo c’è un secondo passaggio da fare.
Il secondo passo va fatto dal consiglio di amministrazione del consorzio di tutela. Una delle scelte obbligatorie del cda di un consorzio rappresentativo di una denominazione di origine è quello di incaricare una società terza per l’attività di certificazione dei vini per i quali si desideri l’autorizzazione ad utilizzare la denominazione di origine. Insomma, quella società cui vengono inviati i campioni dei vini per i quali si desidera il riconoscimento a doc e che stabilisce se quei campioni possiedono le caratteristiche analitiche indicate dal disciplinare e se corrispondono anche alle linee organolettiche di “tipicità” della doc. Ebbene, in questo caso il cda consortile dovrebbe scegliere una società terza che sia abilitata, contemporaneamente, sia alla certificazione delle denominazione, sia alla certificazione bio (ne esistono). In questo modo, la società terza, nel certificare tutti i vini appartenenti alla denominazione, ne certificherebbe anche la loro idoneità biologica, a condizione ovviamente che si tratti della sola società cui i soci si rivolgono per ottenere la certificazione bio (cosa non scontata, visto che le società che certificano il bio sono varie e i produttori di un medesimo territorio potrebbero rivolgersi a soggetti terzi). In questo modo, nei fatti, esisterebbe anche una sorta di certificazione bio cumulativa della denominazione, facilmente e profittevolmente utilizzabile nella comunicazione consortile presso i consumatori e gli operatori economici, anche sfruttando un’apposita dichiarazione che venisse emessa dalla società terza e che potesse essere riportata nel materiale divulgativo del consorzio di tutela.
Lo so, il sistema pare macchinoso, ma lo è molto meno di quanto sembri. In realtà, anzi, ottimizza gli oneri burocratici di certificazione che gravano sui produttori e potrebbe anche abbatterne i relativi costi. Per quanto ovvio, ribadisco che questo sistema sta in piedi solo ed esclusivamente se esiste una rappresentatività consortile del cento per cento della denominazione (insomma, se tutti i produttori di una determinata doc sono soci del consorzio) e una volontà unanime da parte dei produttori (tutti) di una determinata denominazione di origine, e quindi, in realtà, può essere applicato solo a denominazioni relativamente piccole. Ma se non c’è volontà unanime, non sta in piedi neppure la richiesta di adozione di un “disciplinare bio” come quelli sin qui presentati in Italia e in Francia e che sinora sono stati bocciati dalle autorità italiane e francesi.