La sfida del rosé è quella di non essere solo estivo

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“Una delle sfide maggiori per il rosé è quella di incoraggiare il consumo al di fuori dei mesi estivi, attraverso l’esplorazione e la prova del suo potenziale di invecchiamento”. Lo afferma Lauren Eads sul web magazine britannico The Drink Business, che è una testata significativa per il mondpo del beverage del Regno Unito. Dico che solo assolutamente, totalmente d’accordo. Non è un caso che a marzo io abbia organizzato una serie di verticali delle ultime quattro annate di Chiaretto, e i partecipanti mi sono sembrati assai stupiti, favorevolmente intendo, dalla capacità non solo di tenuta nel tempo di quei vini, ma anche, se possibile, del loro miglioramento alla distanza, facendosi più complessi.

A proposito del rosé in Italia ci sono un sacco di pregiudizi difficili da estirpare. Il primo è che siano un miscuglio di bianco e di rosso, il che non è vero per i rosé storici, autoctoni, tradizionali, che vengono solo e soltanto da uve rosse. Il secondo è che sia un vino “da donne”, come se le donne fossero incapaci di bere bene. Il terzo è che siano vini che “muoiono” dopo l’estate.

Signori miei, il rosé è un vino. Un vino che ha prerogative proprie, certo, ma che come ogni altro vino, quando è ben fatto, regge le stagioni e il tempo e guadagna dalle stagioni e dal tempo. Dunque, è un vino perfetto per la primavera e per l’estate, all’aperitivo e con la cucina leggera, ma è perfettissimo d’autunno e d’inverno, quando la speziatura viene ad arricchirne il profilo sensoriale, e dunque ne porta l’abbinabilità verso cucine via via più complesse, e intrigantissimo con l’avanzare degli anni (almeno di qualche anno).

Non ci credete? Provate. Ma attenzione, può essere un gioco rischioso: potreste perdere la testa per certi rosé di quattro o cinque anni e abituarvi, come faccio da tempo, a mettere da parte le bottiglie più interessanti che avete incrociato.