Quando l’amarone era un difetto

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C’è stato un tempo che l’amarone era considerato un difetto. Sta scritto nero su bianco su un libro del 1913, “Il Vino” del professor Giacomo Grazzi Soncini.
Il lemma è questo: “Amaro, amarone, amarezza. – L’amarezza è un difetto”. E più avanti: “In generale i vini molto colorati e ricchi di sostanze estrattive hanno maggiori predisposizioni ad essere colpiti dalla malattia dell’amaro”. Quindi dice: “Infine, dirò che il sapore amaro è un difetto piuttosto grave; difetto poi che può essere più o meno marcato, come pure può essere transitorio o permanente”.
Nessun riferimento alla Valpolicella, ovviamente, ma l’Amarone valpolicellese non nasce forse come versione più secca del Recioto? In fondo il disciplinare originario parlava di Recioto della Valpolicella Amarone, no?
Al di là della questione dell’amarone, devo rendere merito alla casa editrice Lazarus di aver ristampato, in anastatica, l’altrimenti introvabile libretto del professor Grazzi Soncini, originariamento edito da Ulrico Hoepli. Uno spaccato preziosissimo delle conoscenze enologiche dell’inizio del Novecento.
Vi è anche, in apertura di testo, una descrizione di cosa sia il vino.
Eccola: “Per le molte sofisticazioni e per la quantità non indifferente di vino fabbricato con uve secche e con altri frutti zuccherini, del vino si dà oggi una definizione più particolareggiata, la quale di potrenne riformulare colle seguenti parole: Per vino si intende quel liquido che si ottiene con la fermentazione alcoolica del succo o mosto di uva fresca. Questo mosto si può fermentare in contatto o meno con la vinaccia o parte solida dell’uva, senza però che al medesimo sia stata fatta alcuna aggiunta di sostanze estranee o di sostanze chimicamente uguali a quelle che esso contiene. L’aggiunta di queste ultime sostanze da molti viene considerata una sofisticazione, perchè fa variare quantitativamente la composizione del mosto e per conseguenza quella del vino che in seguito si ottiene”.
Una sorta di definizione del “vino naturale” ante litteram. Con un distinguo che fa rabbrividire i valpolicellisti d’oggidì: il vino si fa con “uva fresca”, e la precisazione nasce dal fatto che c’era una “quantità non indifferente di vino fabbricato con uve secche”. Insomma, si faceva vino con uve sottoposte ad appassimento, e questo era considerato negativamente.
Dunque, era un difetto averer un vino dal sapore amarone, e grave era farlo con uve appassite. Per fortuna che l’Amarone della Valpolicella è arrivato dopo il 1913. Le prime bottiglie con quel nome in etichetta sono degli anni Trenta.