Dacché m’interesso di vino ho preso a nutrire ammirazione per la figura del négociant, di colui cioè che selezione uve e vini e c’investe la propria reputazione annata dopo annata. Mica un mestiere facile, se vuoi mantenere standard qualitativi alti, e certi negozianti non recedono di certo dalla loro tensione all’eccellenza.
La famiglia Franco, a Valdobbiadene, prese a “negoziare” in vino dopo la fine della prima guerra mondiale, ché il conflitto aveva distrutto umanità e case e anche le vigne. Lo sono ancora, prendono uve anche da altri, “e ne siamo orgogliosi”, dice Primo Franco, che guida la Nino Franco, che ora ha compiuto un secolo. Un secolo, già, e non sono mica tante le aziende che riescono a varcare indenni e anzi vitalissime un simile traguardo.
Allora, dopo la guerra che si usa definire “grande”, compravano dove potevano e dove trovavano vini degni d’acquisto, fino in Emilia, ma anche e soprattutto nel Veronese. Talvolta facendo scambio. Una damigiana di Prosecco in cambio d’una damigiana d’altro vino. In particolare, il nonno di Primo aveva una passionaccia per la Valpolicella e per il suo Recioto, che andava a prendere dai Rizzardi, a Negrar, e il Recioto era quello che veniva dalle vigne di Pojega, che tuttora è uno dei più magnificenti cru valpolicellesi.
Ecco, un Recioto del 1961 di produzione Rizzardi e d’imbottigliamento Franco l’ho bevuto – sissignori, bevuto – alla degustazione del centenario della cantina valdobbiadenese, ed è stata la conferma che nelle storie del vino nulla accade per caso, e che chi sa fare ottimo “negozio” sa anche fare ottimo vino, e dunque non è un caso se qui sono stati nel tempo eccellenti sia i vini acquistati, sia quelli prodotti direttamente. Un vino grandioso, questo Recioto, di un’annata gloriosa, e non uso questi aggettivi a casaccio, nossignori. In una e per nulla ossidativo, ci ho trovato slancio sapido e fresco e frutto succosissimo e speziature minute e gentili e una fascinosa presenza di tamarindo e nocino e maraschino. Spettacolare.
Ma mica c’era solo un Recioto di padre illustre e d’illustre acquirente, in quella degustazione. No, c’era anche un Amarone del 1967, comprato, questo, dai Quintarelli del Cerè di Negrar – sì, “quei” Quintarelli – e poi imbottigliato a Valdobbiadene. Iodio, capperi di Pantelleria, spezie avvolgenti. Asciutto e rinfrescante al sorso. Anche questo vino strepitoso e, per quanto mi riguarda, commovente. Perché a quei tempi dai Quintarelli prendeva il vino “della casa” la famiglia Gioco, e proprio in quell’anno, nel ’67, Giorgio Gioco portò alla prima stella Michelin il suo ristorante 12 Apostoli, a Verona, e furono proprio i Gioco a spingere Bepi Quintarelli verso l’empireo enoico. Per me che ho avuto Giorgio – venutoci a mancare proprio quest’anno – come amico e maestro, be’, per me la commozione è stata grande. E altrettanto grande mi si è confermata l’impressione che dicevo in apertura, e cioè che nel vino nulla è casuale e chi sa far “negozio” guardando al valore “vero” è da ammirare, e i grandi comunque finiscono, inesorabilmente, per incrociare i propri destini, come i Franco, i Quintarelli, i Gioco, i Rizzardi.
C’è poi una chiosa di Primo Franco che voglio riportare qui. “Potete pensare che accada questo ai nostri vini tra quarant’anni? Allora i vini migliori si mettevano via per gli amici, oggi si punta a vendere” ha detto. Temo che no, che ai vini d’oggi – se non a pochissimi – non possa accedere l’uguale. Magari però è da degustazioni come quella che Primo Franco ha offerto per i cent’anni della sua cantina che può arrivare lo stimolo a ripercorrere quelle stesse strade. Ché è dall’esempio che può venire l’imitazione positiva, l’emulazione. Sotto sotto, penso che Primo ne sia convinto, e credo che ne siano stati persuasi anche coloro che con me hanno condiviso la gioia di quei vini.