La Valpolicella reimpari la lezione del Recioto

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Che il momento sia molto delicato per i vini rossi, e soprattutto, pare, per i vini rossi di maggior concentrazione, è noto. L’Amarone della Valpolicella è un vino rosso di consistente concentrazione, e dunque, nel suo caso, “il rischio di disamorarsi di un vino con la stessa nonchalance con cui ce ne si è innamorati esiste“.

La frase che ho virgolettato è di Giorgio Fogliani, collega che stimo molto. L’ha scritta sul sito della casa editrice Possibilia, per la quale ha pubblicato alcuni preziosi libri su vari territori italiani del vino. Aggiunge, Giorgio, che la sfida futura dell’Amarone pare essere quella di “reinventarsi, e forse tornare sui propri passi“, e questo, a suo vedere, lo potrebbe riportare a essere “un vino d’eccezione, da produrre solo in determinate circostanze e in quantità limitate”. Come sempre accade, mi trovo in sintonia con quanto ha scritto Giorgio. Tuttavia, con un distinguo. So bene che dopo aver letto il distinguo che mi accingo a scrivere ci sarà qualcuno che mi darà del matto, ma non mi importa.

Il distinguo è questo: se l’Amarone deve tornare sui propri passi, non può dimenticare di essere figlio del Recioto, di cui ha rappresentato, in passato, la versione secca. Fino agli anni Ottanta, il “vino d’eccezione” della Valpolicella era proprio il Recioto, tant’è che nel primo disciplinare di produzione valpolicellese l’Amarone era indicato come una tipologia del Recioto della Valpolicella. In etichetta si scriveva: Recioto della Valpolicella doc Amarone. La menzione “Amarone” veniva dopo la dicitura “doc”. Oggi il Recioto, dolce, è quasi scomparso. I disciplinari, inoltre, si sono scissi: l’Amarone ne ha uno per sé, il Recioto un altro (ed entrambi sono diventati docg).

A mio avviso, il fatto che il Recioto sia ridotto ai minimi storici è un male, perché viene meno la palestra su cui i vignaioli della Valpolicella potrebbero e dovrebbero allenarsi. Infatti, il Recioto è una straordinaria scuola per imparare da un lato il ruolo e il valore dell’acidità e dall’altro la maniera di ricercare l’equilibrio nei vini tratti da uve appassite. Se non si sa equilibrare sapientemente la dolcezza con l’acidità, il Recioto diventa stucchevole; se non si sa dosare l’alcol, il Recioto diventa bruciante. Il Recioto è un gioco di prestigio, una magia. L’Amarone, oggi, ha bisogno, appunto, di una nuova magia, perché con il cambio climatico intervenuto, le uve hanno troppi zuccheri, e dunque l’alcol sale alle stelle.

Attenzione: non sto assolutamente dicendo che la Valpolicella deve puntare sul Recioto. Sarebbe un invito antistorico, stante la crisi pluridecennale dei vini dolci in tutto il mondo. Sto dicendo che i produttori della Valpolicella dovrebbero usare il Recioto come campo d’allenamento, e i motivi sono quelli che ho già espresso.

Intravedo, tuttavia, un duplice ostacolo culturale.

In primo luogo, la storia del Recioto è appannaggio soprattutto, o quasi solo, della cosiddetta zona classica. Ovvio che il Recioto si fa anche a est, ma i veri protagonisti contemporanei della tradizione reciotista risiedono tutti nella vallate classiche. Infatti, per me i vertici sono rappresentati da Begali (che considero il miglior interprete del Recioto), Villa Spinosa, Tedeschi, Speri, ovviamente Quintarelli, Allegrini, Venturini, Viviani, Monte dall’Ora, Novaia e anche dalla Cantina di Negrar, che nelle annate di grazia ha sempre sfoderato, nella linea Domini Veneti, un Recioto capace di competere ad armi pari per le posizioni di vertice. Ribadisco, sono tutti produttori della zona classica. Era in zona classica anche la Villa Bellini di Cecilia Trucchi, il cui Recioto era sublime. Dunque, se la mia indicazione del Recioto come campo prova del nuovo equilibrio amaronista dovesse essere presa in considerazione, l’ampia parte restante della Valpolicella avrebbe un gap da colmare.

In secondo luogo, relativamente al Recioto, i produttori nati negli ultimi decenni assomigliano ai nativi digitali rispetto all’analogico: non lo conoscono, non appartiene al loro vissuto. Anche questo è un vuoto che andrebbe colmato.

Io auspico che tutto il mondo valpolicellese torni sui propri passi – come dice Giorgio Fogliani – e questo, per me, significa tornare a concentrarsi, anche solo per esercizio, sul Recioto, in modo da recuperare appieno la cognizione di quanto ho espresso sopra, ossia l’equilibrio di un vino che nasce dall’appassimento e il valore essenziale dell’acidità. Posso capire che mi si obietti l’esistenza di tutt’altra priorità, e che la priorità possa essere quella del Valpolicella Superiore, magari in stile borgogneggiante, e del Valpolicella da uve fresche, ma io invece credo ostinatamente che la Valpolicella del vino debba riprendere dimestichezza con le proprie radici, e che le radici siano nel Recioto. Reimparare a fare il Recioto, anche in poche centinaia di bottiglie, significa imparare a fare meglio l’Amarone, il Superiore e il Valpolicella. Perché non puoi fare pittura astratta se non sei prima un ottimo pittore figurativo e non puoi fare improvvisazione jazzistica se prima non conosci la musica e lo strumento. Storicamente, le uve sono state appassite per farci vini dolci, non vini scecchi. La Valpolicella attuale appassisce quasi solo per fare vini secchi. Bisogna tornare a imparare i fondamentali e si comprenderà anche il modo di produrre degli equilibratissimi, straordinari vini secchi.