Quell’anomalia che appartiene alla Fivi

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Nel variegato mondo aggregativo del vino italiano, la Fivi – la Federazione italiana dei vignaioli indipendenti, che ha recentemente rinnovato il proprio consiglio direttivo e la propria presidenzarappresenta indubbiamente un’anomalia. Non è un sindacato, non è un’istituzione, non è un consorzio, non è un’associazione costituita con uno scopo contingente, non ha dipendenti, non ha struttura operativa, non ha uffici propri, non vende servizi agli associati e propone pochissime attività promozionali (il Mercato dei Vini di Piacenza, l’area attrezzata a Vinitaly e i cosiddetti “punti di affezione” nelle enoteche). Eppure si è consolidata, si è accresciuta, ha assorbito le tensioni interne che si sono via via manifestate (è normale e naturale che ve ne siano, perché i numeri portano con sé complessità e le organizzazioni complesse di persone accolgono dentro di sé differenti visioni), siede ai tavoli di confronto governativi, partecipa a consultazione unionali, esprime la presidenza della Cevi, la Confederazione europea dei vignaioli indipendenti, pur essendo ampiamente minoritaria rispetto alla corrispettiva federazione francese.

Per una parte dei temi che ho esposto qui sopra avevo proposto una rifessione già nel 2012, in una fase ancora – come dire – “fondativa”. Nelle mie argomentazioni di allora tendevo anch’io a “leggere” convenzionalmente l’identità di quest’associazione neonata. Col tempo ho invece maturato l’opinione che la forza della Fivi risieda proprio nel suo non essere “leggibile” attraverso i canoni convenzionali che sono tipici del sistema vitivinicolo. Se un soggetto non è inquadrabile in formule predefinite, se non è ascrivibile a schemi noti, fatichi a circoscriverlo. Soprattutto se l’attività di quel soggetto è pressoché una sola: fare, in senso lato, lobbying.

Per semplificare, e per evitare fuorvianti riferimenti alle forme “istituzionalizzate” di lobbying esistenti o in via di definizione legislativa, la definizione “basica” – e dunque non giuridica –  di lobby la prendo da Wikipedia: “un gruppo di pressione è un gruppo organizzato di persone o di aziende che cerca di influenzare con varie strategie dall’esterno le istituzioni per favorire particolari interessi”. Mi pare di poter dire che l’obiettivo fondativo della Fivi sia stato e sia esattamente questo, al di là di ogni contesto formale. Nel sistema del vino italiano non ci sono altre entità associative che adempiano a questa missione in forma pressoché esclusiva, c’è solo la Fivi. Le altre organizzazioni, infatti, hanno anche ulteriori funzioni. Dunque, quella che ho definito come una “anomalia”, per la Fivi mi pare che sia un elemento cruciale, o quanto meno che questa sia stata la scelta sin qui continuativamente adottata, dall’origine.

La Fivi può cambiare la propria forma organizzativa o le proprie funzioni sociali? Certo che potrebbe, perché tutte le organizzazioni umane sono modificabili e possono evolvere, ma presumo che mutarne l’assetto “anomalo”, facendole assumere una strutturazione più organizzata, possa portare con sé il rischio di snaturarne l’essenza, trasformandola in “altro”. Un “altro” più schematizzabile, e dunque maggiormente prevedibile e arginabile. Ma io non sono un vignaiolo, e dunque non so se questo rischio venga avvertito come tale oppure no, per cui potrei sbagliarmi anche stavolta.


1 comment

  1. ambra

    sono sempre convinta che i progetti siano buoni quando oltre alle idee per un certo fortunato karma ci siano ai vertici anche le persone

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