Non c’è bisogno né dei francesi, né degli americani

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Lui non lo sa, ma mi ha aperto gli occhi, mi ha chiarito il motivo vero del successo del Prosecco. Senza parlare di vino, scrivendo di finanza e di potere, mi ha fatto capire. Gliel’ho detto una sera in birreria, a Roma, però ritengo che non mi abbia creduto, o forse ero così stanco che mi sono spiegato male io.

Lui è un giornalista che fa la televisione e ha scritto un libro sul “sistema invisibile” che ci avvolge nelle proprie spire per strozzarci. È Gianluigi Paragone, che conduce La Gabbia su La7 ed è in libreria con “Gang Bank”, dove racconta del “perverso intreccio tra politica e finanza che ci frega il portafoglio e la vita”.

Ecco, in quel libro, in Gang Bank, c’è una mezza paginetta che mi ha reso evidente il perché della marcia trionfale del Prosecco, anche se non se ne parla in realtà di Prosecco.

La citazione è quella che viene qui sotto, e non stupitevi se si parla di Renzi e di cose diverse dal vino. Intanto leggete, poi spiego.

“Fa specie pensare che un giovane leader – Matteo Renzi – sia andato in California per imparare «dai più bravi», come egli ha spiegato. Mi muove tristezza pensare che i campioni del nuovismo, della rottamazione, guardino all’America con la sudditanza culturale di chi ha già mollato l’Italia. Non abbiamo bisogno degli americani, né tanto meno di quelli della Silicon Valley. Le nostre province hanno innovato producendo ‘cose’, non dati. Il mondo dei capannoni e dei distretti – che mai tanta attenzione ha avuto dai governi, nemmeno quando governava il cosiddetto ‘fronte del Nord’ – non è per nulla finito. È stato tradito in nome della rottamazione culturale. Gli italiani hanno sempre avuto una marcia in più. «Vado a imparare da chi è più bravo» è una frase meschina: altro che leadership, questo è servilismo verso i nuovi padroni. Per ripartire occorre rispettare l’Italia e gli italiani, le sue storie di piccole imprese. Qualità, design, organizzazione. Non tutto è perduto. Nemmeno in tempo di crisi”.

Capito dov’è il Prosecco e il fatto che il Prosecco ha vinto, pur in tempo di crisi?

È lì, nel fatto che il Prosecco non ha voluto imitare nessuno, non è andato “a imparare da chi è più bravo”. Invece, ha costruito una propria identità e attorno a quell’identità ha costituito un distretto che funziona. Ha avuto rispetto di sé stesso e del proprio modo di essere. Senza servilismi verso chicchessia.

Oggi sono gli altri a voler “imparare da chi è più bravo”, e il più bravo è il Prosecco, ma sbagliano, perché non è così che ce la potranno fare.

Parlo dell’Asti Secco, con quel nome così imitativo. Parlo degli spumantisti trentini che gioiscono perché un giornalista americano ha detto che “Italy’s Best Sparkling Wine Is Not Prosecco”, scegliendo, lui, al posto del Prosecco, cinque bolle del Trentodoc.

Non hanno avuto abbastanza dell’esperienza dei produttori di Franciacorta che a lungo hanno voluto misurarsi con lo Champagne e ancora predicano che è meglio il loro vino? Ma niente, il Franciacorta è rimasto col mercato e coi numeri che aveva, o poco più. Mentre il Prosecco non ha guardato in casa di nessuno, se non dentro alla propria.

Il Prosecco ha vinto per un motivo, uno solo. Ha vinto perché “il mondo dei capannoni e dei distretti non è per nulla finito”. Bisogna però crederci e credere in se stessi.