Nel calice di Pontormo

Pontormo

“Per te il vino è più sacro o più profano?” Sulle prime, m’è parso abbastanza facile rispondere a questa domanda, posta dall’Agenzia Squadrati di Milano per realizzare uno degli assi portanti della ricerca “Il quadrato semiotico dei wine lovers” per Bosco Viticultori, presentata allo scorso Vinitaly.
Profano – mi sono detta – sempre più profano – se è vero che il valore economico, il prezzo, la sua posizione sul mercato sono gli aspetti a cui tutti siamo più attenti: i produttori perché lo devono vendere, i consumatori perché possono (ma non sono tenuti a) comprarlo. Ci ho riflettuto ancora, però, ritenendo che nessuno dei quattro atteggiamenti di consumo delineati dalla ricerca mi rispecchi davvero (Radical? Enosnob? Pane al pane? Socialite?). Tutti e nessuno, di per sé.
Poi, a Vinitaly – nel recinto di Vivit, per essere precisi – ho ascoltato (e bevuto) il racconto di un vino che mi ha restituito il senso del sacro.
Come un lampo mi è tornata alla mente l’iconografia della “Cena in Emmaus” che Pontormo dipinse nel 1525, un’opera conservata a Firenze nella Galleria degli Uffizi: con una modernità quasi inaudita del tratto e del colore Jacopo Carucci fissa l’attimo del disvelamento del Cristo ai discepoli, nell’atto di spezzare il pane come narra il Vangelo di Luca.
In quel dipinto – straordinario per l’epoca –  colpisce un insieme di particolari: il piatto e i bicchieri ancora vuoti, il gesto del discepolo che sta per versare… che cosa? Acqua? Vino?
Piace immaginare che sia vino. E il pensiero corre al fatto che il calice pieno è sempre più assente dalle tavole degli italiani, alle tante domande che ci poniamo sul come riportarcelo, malgrado il consumo vada sempre più calando.
Ho bevuto, dunque, l’Apice 2010 di Stefano Amerighi, vignaiolo biodinamico a Cortona. Potrei definirlo un canto nel bicchiere, un sorso che appassiona e riconcilia (me, almeno) con il syrah in Italia: sottile, dinamico, con la polpa dell’uva che ti avvolge il palato – e che Stefano pigia con i piedi.
Ecco, il calice di Pontormo lo riempierei con questo vino illuminante, ricordando che l’Artifex nel Rinascimento italiano era ambizioso, giacchè voleva unire nella sua arte il Macrocosmo e il Microcosmo: il divino e l’umano, la Natura e l’uomo, il Cielo e la Terra.
Mi pare che Stefano Amerighi c’abbia egregiamente provato.
E mi viene da dire che, prima di tutto, bisognerebbe riportare sulla tavola questo legame interrotto, rendere ancora il vino “sacro” senza farne un idolo, riportarne la divina bellezza nella semplicità del gesto quotidiano, come quel discepolo meravigliato che sta per riempire il bicchiere.  Sarà che la Pasqua è appena trascorsa.

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