Le certificazioni del vino e il problema culturale

bicchieri_vuoti_400

Molti l’hanno sicuramente letto, ma vorrei tornarci su, invitando comunque alla lettura chi non l’avesse già fatto. Mi riferisco all’editoriale firmato da Maurizio Gily sul numero di marzo della rivista Millevigne. “Le doc, un fortino assediato” si intitola, e contiene tanti di quegli stimoli che da solo meriterebbe almeno una settimana di approfondimenti tra addetti ai lavori.

Siccome una settimana non è tempo congruo alla presenza su internet, voglio qui soffermarmi sulla conclusione di quell’editoriale. Là dove Maurizio parla delle commissioni di degustazione, spesso nel mirino dei produttori e talvolta anche della critica.

Il problema, a mio avviso, è culturale. Solo culturale. Ma un problema culturale si risolve solo accrescendo la cultura di chi ne è protagonista. Mi spiego, partendo dalle parole di Maurizio Gily.

“Noi tecnici – scrive – talvolta abbiamo un approccio alla degustazione troppo distante da quello del consumatore, troppo analitico nello scomporre il vino ed evidenziarne eventuali piccoli difetti piuttosto che valorizzarne l’impatto generale sui nostri sensi e apprezzarne la ‘verità’ rispetto alla sua origine. La riduzione dei solfiti, le fermentazioni spontanee ed altre pratiche legate a un’enologia a basso impatto tecnologico hanno parzialmente rimodellato i parametri di valutazione dei critici e dei consumatori e di questo occorre tenere conto. Nello stesso tempo, non si può pretendere che sulla base della ‘autenticità’ si assegni il ‘bollino’ a vini palesemente difettosi, perché il difetto è soggettivo sì ma fino a un certo punto, le commissioni hanno il dovere di garantire al consumatore il rispetto di una qualità riconoscibile”.

La soluzione? “Penso che una maggiore condivisione di esperienze sarebbe utile” afferma Maurizio, e sono d’accordo. Lo sono meno quando dice che questa condivisione sia utile “sia a migliorare la qualità media dei vini che a incoraggiare i produttori a riconoscersi maggiormente nel loro presidio territoriale e patrimonio collettivo, che è la denominazione di origine”. O meglio, sono d’accordo che sia utile a questo, però ne manca un pezzo. La “condivisione di esperienze” a mio avviso è utile ed anzi essenziale anche a migliorare la cultura delle persone che fanno parte della commissioni di degustazione.

Molte volte chi fa parte dei panel degli enti di certificazione, e nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di enologi locali, non ha grandi occasioni per ampliare i propri orizzonti cognitivi in fatto di vini del mondo. Fa il suo lavoro in cantina, assaggia un sacco di vasche delle cantine per le quali collabora, ma raramente gli capita di approfondire quel che c’è in giro per il mondo, e dunque valuta i vini sulla base della propria esperienza. Ecco, questo è il problema.

Nel sentire le lamentazioni di tanti vignaioli che se la prendono con le commissioni e i commissari, mi capita spesso di chiedere perché i vignaioli non entrino in massa in quelle commissioni. Non è per niente difficile entrare a farne parte. L’obiezione che mi sento rivolgere  è che ci vuole troppo tempo per partecipare alle commissioni e i lavori in vigna di tempo ne lasciano poco.

Sta bene, prendo per buona l’obiezione. Allora rilancio chiedendo perché i vignaioli non investano sulla cultura dei commissari organizzando per loro, e soprattutto per i capi panel, delle degustazioni di vini coerenti con i modelli produttivi del territorio, coerenti insomma con l’idea di terroir, ampliando così l’orizzonte culturale dei commissari. Sarebbe una maniera di fare condivisione, e ritengo che verrebbe accolta con larghissimo favore dagli enti di certificazione. Ne ho le prove, del resto.

Sterile però lamentarsi se non si fa nulla per risolvere il problema alla radice, e la soluzione non è quella di eliminare le commissioni affidadosi alle sole analisi chimico-fisische, perché da quel lato il vino “industriale” è certamente, nella stragrande maggioranza dei casi, meglio attrezzato di quello “contadino”.