Probabilmente mi sono distratto, però non mi pare che abbia destato grande clamore l’annuncio, dato da Veronafiere a fine gennaio a Gedda, in Arabia Saudita, dell’apertura formale del prossimo Vinitaly ai vini dealcolati, ossia quei prodotti della filiera vitivinicola che i fautori degli acronomi chiamano NoLo, che sta a significare No-Low Alcohol, e dunque, insieme, non alcolici e a bassa gradazione. In particolare, mi stupisce che la cosa non abbia suscitato un grosso chiacchiericcio sui social media. I dealcolati non fanno già più notizia? Oppure sono già passati come un fatto acquisito? Entrambe le ipotesi non mi sembrano di grande auspicio per la produzione italiane di dealcolati, che di fatto deve ancora partire, ancorché le cronache raccontino che a Wine Paris la disponibilità di dealcolati sia finita già il secondo giorno di fiera, ma forse è stato l’effetto della curiosità.
Io mi sono sempre espresso a favore dei dealcolati per il semplice fatto che in Italia ci sono troppe vigne e da qualche parte tutta quell’uva bisogna pur farla finire. La dealcolizzazione può essere un’opportunità. Però mi domando se esista davvero un mercato così ampio da accogliere fiumi di vino senz’alcol, o se invece si andrà incontro alla solita guerra tra poveri per contendersi uno spazietto di mercato a prezzi giocoforza stracciati (scarsa domanda e forte offerta presuppongono listini ribassisti), seppure a costi fatalmente alti dal lato della produzione, giacché il processo di dealcolizzazione è costoso: la conseguenza sarebbe pagar l’uva ancora meno di quant’è pagata adesso, e dunque a saldo negativo per i viticoltori. Vale la pena?
So benissimo che al mondo ci sono miliardi di persone che non bevono alcolici per i motivi più disparati – dal credo religioso alla scelta salutistica -, e dunque, in linea teorica, il mercato potenziale dei vini dealcolati è gigantesco. Tuttavia, siamo sicuri che chi non è interessato al “vino” alcolico possa essere interessato al “vino” analcolico? Sempre “vino” si chiama. Le mie convinzioni al riguardo si sono molto raffreddate durante una recente visita in Sri Lanka, paese che non ha alcuna dimestichezza con il vino. Da quelle parti la gente beve bevande gassate zuccheratissime dai colori fluorescenti, birra locale e tutt’al più, nelle occasioni speciali, un po’ di scotch whisky o di arrak. Che cos’ha in comune il vino dealcolato con queste usanze? Pressoché nulla. Anzi, proprio nulla. Dunque, come potrà funzionare?
La risposta agli interrogativi che ho posto non ce l’ho e pertanto guarderò con interesse al prossimo Vinitaly. Mi pare evidente che, trattandosi della rassegna principe del vino italiano, la sua apertura ai dealcolati sia rimarchevole per il mondo nazionale del vino, pur annotando, di pari passo, che quello della fiera veronese è un avvicinamento tuttora “prudente”, a differenza di quanto avvenuto all’estero. Infatti, Vinitaly ha dichiarato che quello che vedremo attuato di qui a poche settimane sarà solo un “progetto pilota“, anche se ha preannunciato che lo spazio per i vini dealcolati “si consoliderà nelle prossime edizioni diventando strutturale“. Ma è noto che, negli affari, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare. In questo caso, si tratta di un mare di vino da smaltire, e bisognerà fare i conti con l’evoluzione dei mercati. Insomma, occorrerà vedere se quello dei vini dealcolati sarà un fuoco di paglia, sospinto dall’urgenza o dalla curiosità, o se invece si tratterà di un rinnovamento epocale dell’industria vitivinicola. Per quel che mi riguarda, sono passato dall’entusiasmo alla cautela, e forse anche un tantino allo scetticismo.