Per salvare il vino si ripensino viticoltura e disciplinari

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“Quante volte, negli anni Novanta, ho fatto delle cose che non farei più, vini scurissimi, concentrati”: questa confessione l’ho sentita pronunciare da uno dei più noti e premiati enologi italiani, Carlo Ferrini, durante una presentazione milanese del raffinato Brunello di Montalcino che produce con la figlia Bianca nel podere Giodo. Una valutazione simile l’ho raccolta, nel corso di una piacevole cena bardolinese, da Emilio Pedron, già amministratore delegato di Bertani Domains e del Gruppo Italiano Vini, corazzate del panorama vitivinicolo italiano. Ha ricordato, Pedron, come nei decenni passati fosse in auge il dogma viticolo ed enologico degli impianti fitti, delle rese bassissime per ceppo, delle concentrazioni di colore, di frutto e di tannino, tutte scelte che hanno prodotto un sostanzioso successo commerciale, ma che oggi, col clima che è cambiato in fretta, ci consegnano vini troppo alcolici e pressoché inaffrontabili a tavola. Salire in quota coi vigneti, ripensare gli uvaggi e introdurre le varietà resistenti sono cure palliative, se non si cambia il modello viticolo, se non si fanno uno o più passi indietro nelle forme di impianto, di allevamento e conseguentemente di rese: di questo è convinto Pedron, e lo sono anch’io.

Anch’io in passato venni influenzato dal mito dei vigneti fittissimi e del grappolino per pianta, salvo poi rendermi conto che si tratta di soluzioni che vanno bene solo in situazioni particolari ed estreme, ma che non possono applicarsi sempre e ovunque, pena l’imbevibilità di vini capaci di impressionare il degustatore o l’estensore delle guide, ma inadatti alla tavola, al cibo, al convivio, ossia allo scopo primario che deve avere un vino. Non sono un agronomo, ma penso che non ci sia rimedio a ritornare indietro ai tendoni, alle pergole, a quelle tante forme dell’ingegno contadino che vennero introdotte nei secoli per essere spazzate via senza pietà quand’è prevalsa la standardizzazione dell’impianto bordolese, voluto dai propugnatori dei vini di gusto internazionale, in grado di varcare l’oceano perché graditi a critica e gusto di matrice americana, e per questo motivo inseguiti anche dai bevitori di etichette nostrani. Temo che solo con i sistemi di conduzione tradizionale delle vigne possiamo sperare davvero di salvare le acidità e le sapidità dei vini e di tenere a bada l’alcol, e quindi di mantenerli gradevoli alla beva e longevi, e magari anche di salvaguardare i frutti dalla violenza dei fenomeni atmosferici. Le quote altimetriche più alte, la reintroduzione delle uve bianche negli uvaggi dei rossi e la sperimentazione attiva delle varietà resistenti, tutte pratiche che pure sostengo, possono risolvere solo una parte del problema.

Però non è facile, per tre motivi.

Il primo fattore è di natura culturale. Tante e forse troppe aziende hanno una storia relativamente recente e sono nate proprio durante i decenni scorsi, quelli del mito vitienologico del vinone. Questo è il fondamento stesso della loro cultura enologica e agronomica, e su questo fondamento hanno fatto investimenti finanziari consistenti e hanno basato le loro politiche di marketing e di posizionamento commerciale. Di quanto c’era prima sui loro territori, questi produttori dell’ultimo quarto di secolo non sanno pressoché nulla. Credo facciano una fatica tremenda a radere al suolo i loro convincimenti per apprendere un linguaggio vinicolo che non gli appartiene.

Il secondo problema è il costo. Ripensare alla viticoltura vuol dire rifare i vigneti, ma i vigneti si cambiano ogni venti o trent’anni, e la maggior parte sono più giovani, essendo figli di un processo di reimpianto che ha preso avvio intorno al 2000. Adattare i vigneti attuali non è sempre possibile proprio per l’eccessiva fittezza. Cavare tutto e reimpiantare vuol dire dover investire cifre importanti e restare senza prodotto per alcuni anni, col rischio di uscire da alcuni listini.

Il terzo tema è quello della normativa, anch’essa riformulata pressoché in toto nell’ultima ventina d’anni per assecondare le mode internazionali. Andrebbe riscritta la gran parte dei disciplinari di produzione, mettendo mano all’articolo 4, quello che detta le modalità di coltivazione, le forme di allevamento e la fittezza d’impianto, il che rappresenta un processo tortuoso e lungo e di esito per niente scontato, stanti le resistenze che si possono intravedere sia a livello locale, sia a livello centrale. Abbiamo davvero chi è disposto, nei consorzi, ad ammettere che le scelte del passato sono state miopi? C’è realmente chi è disponibile a fare marcia indietro? Esiste una nuova generazione di attori consortili preparati, in grado di sostituire l’attuale? Laddove esistano, questi nuovi attori possono contare su una maggioranza interna agli organismi? In più, ci sarebbe bisogno che anche la politica prendesse posizione nelle Regioni e presso il Ministero, e per alla politica prendere posizione non è sempre gradito, stante che ne va di mezzo il consenso nell’immediato.

Intanto, là fuori non si sa più in che direzione andare.