Liberalizziamo le uve bianche nei vini rossi

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Nel proprio editoriale del 24 aprile scorso su Doctor Wine, Daniele Cernilli ha proposto un interrogativo che reputo meriti forte attenzione: “Il futuro è nell’uvaggio?” Citando alcuni produttori che di recente si sono espressi sul tema, Cernilli ricorda che “se il clima sta diventando una variabile incontrollabile non possiamo pensare che un solo vitigno sia in grado di dare sempre e comunque una qualità costante“. Ha ragione, ovviamente a una condizione, che ho motivo di ritenere che anch’egli condivida, ossia la necessità che l’ammissione di eventuali vitigni complementari non vada mai a marcare l’imprinting e il carattere territoriale di un vino.

Io ritengo – e lo sostengo da tempo – che il primo passo in questa direzione sia quello di “restituire” le uve bianche a quei vini rossi che già in passato le prevedevano, salvo poi, per me sciaguratamente, chiedere di eliminarle intorno all’anno 2000, in quel clima di generale asservimento o almeno assuefazione al mito internazionalista della concentrazione a tutti i costi, che portò a togliere di mezzo le bianche dai disciplinari, magari per inquinarli invece con il cabernet o con il merlot. Fu in quel periodo, per esempio, che il mondo produttivo chiantigiano abolì la malvasia e il trebbiano toscano e quello bardolinese rinunciò alla garganega, tutte varietà bianche che venivano storicamente coltivate nelle vigne locali, frammiste alle varietà rosse.

Invece, in Francia (e non solo) le bianche sono rimaste. “Se andrete a visitare la Cote de Nuits – rammenta Cernilli – potrete rendervi conto che anche nei vigneti più prestigiosi ogni tanto occhieggia una pianta con grappoli bianchi anziché rossi, forse Aligoté, forse Chardonnay”. Aggiungo, per fare un altro paio di esempi di vini rossi molto significativi, che è frequente l’assemblaggio del viognier, bianco, alla syrah, rossa, negli elegantissimi vini della Côte Rôtie e che un pizzico di uve bianche è talvolta presente anche in alcune cuvée di Châteauneuf-du-Pape. Aggiungo che, a mio avviso, lo stesso travolgente successo dei rosé della Provenza è stato agevolato dalla disponibilità, nell’uvaggio ammesso dalle denominazioni locali, di alcune uve bianche, tra cui il rolle, che altro non è se non il nostro vermentino. La stessa cosa accade per i rosado della Rioja, denominazione che ammette, insieme alle uve rosse (tempranillo o garnacha sono fondamentali), anche il viura, altrimenti detto macabeo, bianco.

Noi no, noi abbiamo voluto essere alla moda, spazzando via secoli di tradizione, e oggi, col clima che cambia, le gradazioni che riescono e le acidità che boccheggiano, rischiamo di pagarla cara. Occorrerebbero, a questo punto, due condizioni concomitanti, per correggere i vecchi errori, laddove maturasse l’evidenza che tali sono stati (non necessariamente lo furono). Il primo è una presa di coscienza collettiva della filiera vitivinicola di quei territori che hanno nel loro dna storico la contemporanea presenza di uve rosse e bianche, e il secondo, contemporaneo, è un intervento di liberalizzazione in questo senso da parte del Comitato nazionale vini, che mi parrebbe invece al momento comprensibilmente refrattario a muovere i passi in questa direzione (ma sarei molto contento, invece, di sbagliarmi), e dico “comprensibilmente” perché può suonare in effetti “bizzarro” che chi rinunciò alle uve bianche vent’anni fa, oggi le richieda. Infatti, i disciplinari non sono e non possono essere delle coperte corte da stiracchiare a piacimento di qui e di là se devono servire a far da baluardo alla tipicità, concetto certamente controverso, ma che deve pur possedere dei confini normativi.

Come scrive Cernilli, questa è tuttavia un’esigenza che si farà sempre più pressante nei prossimi anni e merita “una possibile risposta, concreta e per nulla ideologica”. Aggiunge che “che sarebbe il caso quanto meno di parlarne”. Personalmente dico che, almeno per il territorio in cui vivo, ne parlo già dal 2010, e mi piacerebbe che il dibattito si estendesse anche altrove, perché, sì, ritengo che diventi un’esigenza cui sarà per l’ennesima volta deleterio dare risposte affrettate e raffazzonate. Prima, infatti, occorre sperimentare, provare, testare, verificare, correggere, e solo dopo si possono, eventualmente, cambiare le carte a ragion veduta. In Italia siamo troppo abituati a fare il contrario.