Obsolescenza

ap_500

Grosso modo, scrivo di vino ormai da trentacinque anni, e mi sento obsoleto. Qui provo a spiegare il perché in una riflessione che è molto personale, ma mi illudo possa essere anche di una qualche utilità collettiva.

Posso riconoscere, nel mio percorso a contatto con il mondo del vino, alcune fasi precise. La prima fase fu quella in cui cercavo di imparare e di ripetere quel che leggevo, e all’epoca non c’era moltissimo da leggere: nel mio racconto di allora non c’era pressoché nulla di veramente mio, e spesso balbettavo luoghi comuni e favolette. Insomma, un pappagallo ammaestrato. La seconda fase fu quella dell’omologazione, quando venni anch’io travolto dal “pensiero unico filoparkeriano”, quello dei vini grossi e vanigliati. Presto mi accorsi che quei vini che anch’io contribuivo a premiare, in realtà poi non riuscivo quasi a berli, soprattutto a tavola. Ma io il vino lo bevo a tavola, e dunque c’era qualche cosa che non mi quadrava. Compresi di dovermi staccare dall’idea di vino che si era affermata. Avvertii l’esigenza di cercare strade mie. Fu così che approdai ad una terza fase, quella, credo, della maturità, che mi vide a lungo minoritario, ma non solitario. La terza fase si identifica nel mio manifesto per la piacevolezza dei vini da bere, ossia l’elogio del vinino: territorialità, finezza, bevibilità, identità diventarono i capisaldi del mio pensiero, che incominciai a provare a trasferire, con qualche fatica e un po’ di soddisfazione, anche nei mondi consortili. Da allora sono passati quasi quindici anni e adesso sono alla quarta fase, quella dell’obsolescenza, che ho incominciato a riconoscere distintamente un anno fa. A darmene la percezione è stato il cambiamento del ritmo e del linguaggio.

Intendo dire che il mondo, anche quello del vino, sembra uscito dai lunghissimi giorni della pandemia con addosso la stessa frenesia che hanno gli insetti quando sta per arrivare il temporale, come se non bastasse più il tempo e bisognasse fare, fare e fare. Una volta si discuteva se fosse prioritario l’essere o l’avere: per quel che attiene al vino, l’importante è diventato presenziare, sia dal lato della produzione che da quello della comunicazione, perfino, spesso, dell’informazione. Il pensiero, il contenuto, la pianificazione, che richiedono paziente lavorio, sono considerati impedimenti che distolgono risorse e attenzioni dall’unica prospettiva ritenuta veramente necessaria, ossia il proclamare di continuo la propria esistenza. Nelle fiere, nelle rassegne, negli eventi, sui social, ovunque. Esserci, esserci, esserci, subito, ora, adesso, immediatamente, all’istante: solo questo è l’importante, è così che esisti. Io non dico che sia una scelta sbagliata. Anzi, trattandosi di una scelta, è senz’altro giusta, perché quando scegli non si pone alcun caso contrario: le alternative sono state scartate a priori, e dunque non esistono. Dico solo che io scelgo diversamente, e me ne assumo il rischio e il peso: pertanto, sono consapevole del mio essere obsoleto, ne prendo atto. Per me il pensiero continua a venir prima dell’azione, anche se questo mi dà la patente di vecchio e mi costringe all’impopolarità. In fondo, sapersi vecchio e impopolare può non essere neppure così male: semplicemente, fa cambiare gerarchie. Più che altro, ho l’ambizione del vintage.