Costretti a vivere di chiacchiere?

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Ammetto di non trovarmi sempre concorde con quanto afferma il filosofo Massimo Cacciari, ma ritengo molto interessante la sua intervista comparsa qualche giorno fa sul quotidiano la Repubblica sotto il titolo “Costretti a vivere di chiacchiere“. Cacciari fa riferimento al linguaggio politico, ma ci vedo una fortissima assonanza con quanto da un po’ di tempo vado scrivendo riguardo al linguaggio del vino. In effetti, il ragionamento del filosofo veneziano assume un carattere che si dilata al di là dell’ambito strettamente politico (ma il pensiero politico non è, o non dovrebbe essere, di per sé, pervasivo?) quando sostiene che “il linguaggio generale è ormai vaniloquio“. Infatti, prosegue, “il degrado non è solo del politico, è esteso”.

Da un altro passo dell’intervista rivoltagli da Raffaella De Santis, si ha l’evidenza che nella politica, e in genere – aggiungo io – nella vita economica e sociale, “ha vinto il linguaggio dei social che prescinde da ogni analisi, da ogni critica, da ogni giudizio. È in atto un impoverimento tremendo dei nostri mezzi di comunicazione. I politici ricorrono a una comunicazione frettolosa usando i mezzi che hanno a disposizione, mica vivono su Marte!” Accade lo stesso, esattamente lo stesso, per le cantine e le istituzioni del vino, che pure rincorrono le forme e i modi della comunicazione frettolosa ed effimera propria del linguaggio dei social, ed è questo il motivo per cui mi sono dichiarato e mi confermo obsoleto. Convintamento obsoleto, sottolineo.

“Quello che conta oggi – aggiunge Cacciari, riferito alla scuola e all’istruzione, ma il senso del discorso è ancora una volta generale – è arrivare subito al successo, convincere rapidamente l’interlocutore, non importa se ricorrendo a fake news. Non conta pensare, ragionare, analizzare le cause, conta schierarsi più in fretta possibile. Siamo dominati dalla fretta“. Concordo, e non a caso ho scritto qualche settimana fa che anche il vino, ormai, viene comunicato con i tempi di un battito di ciglia.

A queste logiche, dico io, si può opporre una resistenza, che per forza costringe all’essere, nell’immediato, minoritari. All’intervistatrice che gli domanda se dunque resistere voglia dire rallentare, il filosofo risponde che occorre questo: “Prendersi il proprio tempo, cercare di comprendere le ragioni dell’altro, il linguaggio di chi non la pensa come noi. Se fai questo, probabilmente sarai un solitario, forse non diventerai mai un leader politico, ma che problema è?” Lo dico anch’io: che problema è? Se altri intendono continuare a correre e correre e correre, ne hanno pieno diritto, ma non si illudano che la corsa li proietti nel domani. Al contrario, correre ti vincola rigidamente all’oggi, perché puoi correre solo nel momento presente. Se invece hai intenzione di affrontare la maratona del domani, la devi preparare, e la preparazione è sempre, prima di tutto, mentale, e in quanto tale singola e solitaria.