Non sono un agronomo e dunque non ho le conoscenze necessarie a valutare tecnicamente la proposta, assai discussa in loco, di consentire l’impianto di vigne del Barolo anche sui versanti nord delle colline, che ora sono escluse dal disciplinare. La norma corrente, infatti, recita così: “esposizione: adatta ad assicurare un’idonea maturazione ed a conferire alle uve ed al vino derivato le specifiche caratteristiche di qualità, ma con l’esclusione per i nuovi impianti, del versante nord da -45° a +45° sessagesimali”. Peraltro, il dibattito attuale relativo al Barolo mi fa riflettere su un tema più generale.
Quel che voglio dire è che il cambiamento climatico sta mettendo in crisi alcuni dogmi della viticoltura – che abbiamo preso per sacri soprattutto a partire dai primi anni Novanta, applicandoli quasi ovunque in Italia -, come la fittezza degli impianti, la bassa produzione per ceppo e, appunto, l’esposizione. Regole che sono state sin qui tutte indirizzate ad avere uve molto mature. Oggi forse troppo mature. A prescindere dalla decisione che verrà presa dalla filiera del Barolo, il fatto che in questi giorni se ne discuta in una denominazione così importante dovrebbero aprire una riflessione anche altrove. Questo non significa dover cambiare per forza le regole del gioco, ma cominciare rifletterci mi pare quanto meno necessario.
Nel resto d’Italia mi pare che, per ora, il dibattito sia circoscritto a una minoranza di addetti ai lavori. Dunque non so se possa aprire effettivamente la strada a una nuova viticoltura e a un mutamento dei paesaggi vitati. Capisco inoltre che l’ipotesi di traslazione della viticoltura sui versanti settentrionali dei colli, mai considerati idonei, possa indurre consistenti dubbi sulla conservazione dell’identità dei vini di alcune denominazioni di origine. Tuttavia, mi domando se il caldo sempre più opprimente e le maturazioni sempre più precoci e ricche non siano essi stessi destinati a compromettere il gusto del vino e la sua bevibilità, e dunque, di conseguenza, la sua identità. Per me la domanda è abbastanza retorica, in quanto incomincio a fare davvero fatica a bere vini con delle gradazioni alcoliche che si fanno di anno in anno più elevate, perché per me il vino è complemento della tavola, e il cibo quotidiano non vuole una presenza alcolica eccessiva.
È ovvio che la migrazione degli impianti sui versati meno esposti all’irraggiamento non è l’unica soluzione che si possa ipotizzare, ed è altrettanto ovvio che questa stessa ipotesi porta con sé, assieme al possibile beneficio di una maggiore freschezza e di una minore alcolicità del vino, anche il rischio di una maturazione fenolica inadatta, e dunque di tannini crudi. Ci sono altre strade possibili, come l’agroforestazione (ma chi rinuncia a metri quadrati di vigna laddove il vigneto costi alcune centinaia di migliaia di euro all’ettaro?), la reintroduzione di forme di allevamento del passato e lo sviluppo della cisgenetica, giusto per dirne tre. Da bevitore, so tuttavia che in Italia qualche nuovo vino dei versanti a nord c’è già, e che mi piace. Ho raccontato, per esempio, del Volta di Bertinga, fatto in Toscana – a ridosso del Chianti Classico – con il merlot coltivato su una china esposta a nord, e dunque su una terra che fino a pochi anni fa sarebbe stata del tutto sconsigliata alla viticoltura. Un vino elegante e fresco, per me buonissimo, figlio di un’innovazione dettata dal cambiamento del clima, che scardina ciò che si dava per assodato. Un esperimento molto ben riuscito, a riprova del fatto che adesso, volendo, si può osare quel che sembrava inosabile.