Ho l’impressione che la crisi incontrata dal vino a livello globale abbia avuto, su una qualche parte del mondo produttivo, l’effetto che ha un destro ben calibrato durante un incontro di pugilato o un gol preso a freddo appena incominciata una partita di calcio: sono entrambe occorrenze traumatiche, che privano coloro che le subiscono della capacità di una reazione immediata ed efficace. Lo dico perché vedo ripetersi da qualche settimane vari annunci che esprimono, pur con diverse sfaccettature, un concetto che reputo autolesionista, ossia che d’ora in poi occorra ridurre le produzione d’uva per migliorare la qualità del vino. Non credo che chi lo pronuncia si renda conto che in questa maniera sta comunicando il messaggio implicito che sinora si è fatto vino di scarsa qualità.
So bene che non è questa l’intenzione, ma a contare non è l’intenzione, bensì l’effetto. Se al consumatore dici che il vino vendutogli sinora non era buono come avrebbe potuto esserlo, temo che avrà una reazione di disagio, ed è possibile che il vino non lo beva più, perché avrà perso fiducia.
Io credo che si dovrebbe smettere di tirare in ballo la qualità, perché la qualità è un concetto relativo, e infatti ci sono prodotti di massa che a un numero enorme di consumatori trasmettono l’idea, confortante, della qualità. Quella che conta è la qualità percepita, e la percezione ce l’ha il consumatore, non il produttore.
Invece, sarebbe finalmente l’ora di concentrarsi sull’identità, perché è questa la vera qualità di un qualunque prodotto (e il vino è un prodotto). Un consumatore compra un prodotto che lo rassicura in quanto risponde alla aspettative che quel consumatore ha di quel prodotto, non già perché chi lo produce gli dica che è “di qualità”. Bisogna dunque che i vini di un certo territorio e di una certa denominazione trasmettano chiara l’identità di quello specifico territorio e di quella specifica denominazione, e per far questo è necessario che i produttori abbiano in mente un’idea precisa di qual è l’identità del loro territorio e della loro denominazione e che le istituzioni del vino, a cominciare dagli stessi consorzi di tutela, la smettano di farsi autocondizionare da quella falsa idea della tipicità, che troppo spesso corrisponde all’omologazione alle tendenze del momento e, in fin dei conti, alla mediocrità. Tutti, produttori e istituzioni, dovrebbero concentrarsi sul concetti dell’identità e su come renderlo chiaramente percepibile. Il resto sono chiacchiere cui non crede quasi più nessuno.