La sobrietà, ecco la chiave di questi Barolo

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Siccome nella mia vita mi sono occupato di vino, di economia, di giornalismo e anche un pochino di politica, nel mio personale sacrario dei numi tutelari ho cara la figura di Luigi Einaudi, che fu economista, giornalista, vignaiolo e politico, nonché nostro secondo Presidente della Repubblica. A chi, più di lui, potrei riferirmi idealmente? Cosicché si capisce la mia soggezione quando ho di fronte una bottiglia che reca impresso il marchio Poderi Luigi Einaudi. Figurarsi se quella è la bottiglia di un nuovo Barolo della casa, e ancora di più se ha il segno distintivo di uno dei miei terroir preferiti di quelle parti.

Il Barolo è il Villero 2019, il quinto cru aziendale, che si aggiunge al Terlo, al Cannubi, al Bussia e al Monvigliero, quest’ultimo nato con l’annata 2018. Matteo Sardagna Einaudi, bisnipote del Presidente, attuale guida dell’azienda, mi dice che questo Villero nasce da una vigna di amici; a fronte di una stretta di mano – come si usava una volta – gli hanno dato in gestione una giornata, la quale, se non sbaglio, nelle misure agrarie piemontesi equivale all’incirca a quattromila metri quadri, un mezz’ettaro scarso.

Aggiunge che oggi l’azienda di famiglia è una specie di “old start up“, nel senso che è certamente radicata nella storia, ma si sta anche rinnovando passo passo e anzi sembra qualcosa di nuovo. Il cambiamento incominciò con l’acquisto di cinque ettari e mezzo al Bussia, che per i barolisti è un nome che fa tremare i polsi e anche con la scelta di reimpostare i vini secondo l’idea della gentilezza e della finezza, che sono poi anche i caratteri che mi piace trovare nel vino, e mi piace rintracciarli anche (se non soprattutto) in una denominazione di potenziale rustica ruvidezza com’è quella barolista. “Non amo i vini concentrati” spiega, ed è una spiegazione che mi trova concorde.

I cinque cru di Barolo dei Poderi Luigi Einaudi (lo so, si dovrebbe dire non cru, ma mga, ossia menzioni geografiche aggiuntive, oppure uga, unità geografiche aggiuntive, secondo la nuova nomenclatura, ma sono così brutti gli acronimi e così complicate le loro forme estese, che preferisco parlare di cru) li ho potuti tastare tutti in una “orizzontale” della vendemmia 2019, e so che posso suscitare invidie. Sono certamente diversi tra loro, com’è corretto che siano, ma hanno anche un timbro comune. Direi che questo timbro è il sussurro. Non sono vini che gridano. Mi spingerei a evocare il senso della sobrietà. Gli intenti, dunque, sono rispettati.

Qui sotto li racconto in breve, in ordine di calice bevuto.

Barolo Terlo Vigna Costa Grimaldi 2019. Rapinoso di fiori essiccati, succoso di frutto. Asseconda del tutto l’idea della finezza, seppure il tannino sia spiccato e netto. (91/100)

Barolo Monvigliero 2019. Questo è un Barolo austero e rigoroso. Il tannino è fitto e terragno. Una vena balsamica raffresca il frutto, che effonde placido il proprio succo al palato. (93/100)

Barolo Cannubi 2019. Quel che mi viene da dire riguardo a questo Barolo è che mostra la classe di un Cannubi dalla testa ai piedi. Frutto e tannino, tannino e frutto; e velluto. (95/100)

Barolo Bussia 2019. Con i vini di Bussia faccio sempre fatica, lo ammetto. Sarà per quella traccia minerale così esposta, per quel loro raspare il palato. Va atteso, con calma. (90/100)

Barolo Villero 2019. Ha nerbo e agilità, tannicità sicura e dinamicità fremente, un equilibrio che incanta. Stille succose d’arancia rossa rallegrano il sorso. È il “mio” Barolo. (94/100)

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