Torre a Cona, tra vino, cucina, accoglienza e pace

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Torre a Cona è sui Colli Fiorentini, lungo la via che da Firenze porta verso Rignano sull’Arno. Dalla città è poca strada, eppure qui non c’è traffico, rumore, frenesia. Semmai, bisogna non farsi distrarre da tutto quel verde, da quella ruralità quasi fiabesca, e anzi serve prestare attenzione alla curva a gomito sulla quale si apre il viale d’ingresso del palazzo.

La villa è settecentesca. Magnifica. Espressione di quella bellezza rasserenante che hanno le residenze patrizie fiorentine acquattate tra gli olivi e i cipressi, fiere di un’appariscenza che non è mai urlata, bensì perfettamente integrata in quel paesaggio che hanno contribuito a conformare, modellandolo in una forma tale che pare del tutto naturale ed eterna. Da dietro la lunga facciata tripartita spunta il torrione medievale, memoria dell’insediamento originario (ma non è questa la torre dell’intitolazione, semmai è un’altra, che svetta su un dosso poco discosto). La conformazione attuale è invece, nella sostanza, quella voluta dai banchieri Rinuccini, che l’ebbero in proprietà fino al 1848, quando passò ai marchesi Trivulzio, milanesi, che possedettero il palazzo e la sua tenuta fino al 1882. Terre e casa passarono poi al barone Padoa. Dal 1935 è del conte Rossi di Montelera, che ora ne ha fatto un luogo dell’ospitalità, una mèta per chi prediliga il turismo lento e quieto, la buona tavola e il vino.

È difficile scegliere di quale delle tre identità di questo luogo si debba parlare. Albergo, ristorante, cantina sono tutte realtà di valore. Nella villa sono state da poco ricavate una ventina di stanze, diverse l’una dall’altra e dall’aria un po’ rétro. Dalla scorsa primavera, nella vecchia limonaia e nel dehors ombreggiato da piante secolari si è aggiunta l’Osteria di Torre a Cona, affidata a Maria Probst e Cristian Santandrea, due nomi che dicono parecchio a chi frequenti la ristorazione toscana di qualità, giacché erano stati, prima, alla guida della Tenda Rossa di Cerbaia in Val di Pesa. La loro cucina qui ha la pace della vita agreste e la schiettezza delle campagne, solida e appagante, e s’avvale del plus, così raro da trovare, d’un servizio colto e signorile. Tra la villa e il ristorante c’è la cantina ottocentesca, con le botti che fanno da culla ad alcune delle migliori interpretazioni della vocazione chiantigiana di queste colline. E poi c’è la tenuta, ovviamente, coi suoi duecento ettari di giardini, boschi, vigne e uliveti (seimila olivi). Il vigneto occupa, in tutto, occupa meno d’una ventina di ettari, per metà dedicati al sangiovese, e poi al colorino, al merlot e, in piccola parte, al trebbiano e alla malvasia, sparsi su pendii che stanno tra i trecento e i quattrocento metri sul livello del mare e connotati da un consistente affioramento di alberese, la pietra tipica di queste parti.

Lo sapevo che per parlare di tutto quel che c’è a Torre a Cona (e di tutto non ho detto, ma ci vorrebbe uno spazio proibitivo) avrei finito per non entrare nel dettaglio di alcunché, ma in fondo questo è anche un po’ il mio modo d’essere, ritenendomi specializzato nella despecializzazione, per cui mi si perdoni e magari mi si accetti. Spero invece d’aver dato almeno l’idea che ci si trova bene e che è difficile poi staccarsene e tornare a mettersi in macchina e rituffarsi nel pur fascinoso tripudio di Firenze.

Ripromettendomi di scrivere qualcosa in futuro sull’Osteria, voglio soffermarmi per un attimo sui quattro vini che ho bevuto a tavola. Tuttavia, prima mi preme menzionare la consulenza agronomica che qui è in atto, essendo affidata a quel Federico Curtaz di cui apprezzo da lungo tempo la capacità di lettura dei territori che gli vengono affidati e del rispetto che ha per le diverse identità locali. Un altro professonista notissimo ha in gestione la consulenza enologica, che è affidata a Beppe Caviola, il quale a mio avviso, da piemontese in terra toscana, qui ci sguazza con piacere fra le acidità che sanno mantenere le uve in questi colli così freschi e anzi freddissimi nell’inverno. Perché questo, la freschezza, è il timbro che m’è piaciuto particolarmente nell’avere nel calice i rossi che si fanno a Torre a Cona.

Chianti Colli Fiorentini 2018. Sangiovese al novanta per cento, colorino per il saldo. Al tavolo del ristorante mi è stato servito giustamente fresco, alla temperatura della cantina. Il che è condizione ideale per apprezzarne la beva e la gastronomicità. Si tratta, infatti, di un vino che esprime al meglio la propria piacevolezza insieme con il cibo. Frutto, spezia, una freschezza spiccata. Si fa bere con nonchalance. (88/100)

Chianti Colli Fiorentini Riserva Badia a Corte 2017. L’annata fu siccitosa e in un anno di siccità saltano fuori i terroir vocati alla freschezza, com’è quello di Torre a Cona. Mamma che naso, questo vino! Fruttini ed erbe macerate, spezie orientali e terriccio, cuoio e pomodoro secco. Emergono, si avvitano, ritornano. Anche acidità e tannino giocano a rimpiattino, dinamicamente. Solo sangiovese dal vigneto di Badia a Corte. (93/100)

Toscana Rosso Colorino Casamaggio 2018. L’uva di colorino rende poco sull’alberese, una quarantina di quintali per ettaro. Logico che di questo vino si facciano poche bottiglie, solo tremila per la vendemmia 2018 e in certi anni neppure si fa. Nel calice trovate tanta ciliegia, e quando dico tanta intendo una quantità impressionante. Poi, la macchia mediterranea e soprattutto l’elicriso e infine anche un che di cannella e di fiori. (87/100)

Vin Santo del Chianti Merlaia 2014. Ditemi quel che volete, che sono matto, che non capisco, che sono provocatorio, ma questo Vin Santo l’avrei voluto come vino d’aperitivo. Perché qui non prevale quella nota ossidativa che talora si trova nella tipologia, ma è invece la freschezza (ancora!) a farsi dominante, in totale coerenza con la prerogativa del terroir. E poi quel briciolo di volatile che fa venir fuori l’uva passa. (92/100)

Visto che ho fatto parecchi nomi, in conclusione, e non certo perché sia quello che vale di meno, voglio citare anche la wine manager (il biglietto da visita dice così) di Torre a Cona, ossia Chiara Bellacci, persona determinata e capace, che sa guidare il visitatore con un garbo e una trasparenza che sono difficili da trovare. La cito qui a riprova dell’impressione che ho tratto dalla mia visita, ossia che si sia voluta mettere insieme una squadra interamente votata alla causa dell’eccellenza. Chapeau.