Il vitigno è uno strumento nelle mani del vignaiolo

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Al Vinitaly della scorsa primavera, compii solo un paio di veloci sortite la domenica e il martedì, giusto un paio d’ore per volta. Ero reduce dall’intervento chirurgico alla clavicola fratturata a Parigi e non avevo molta voglia di assaggiare e prendere appunti, soprattutto nella prima giornata. Tra i pochissimi vini che mi versarono nella data inaugurale, ci fu un Cabernet del Salento. Mi accorsi solo un paio d’ore dopo di non avergli prestata la giusta attenzione. Infatti, l’idea del quel vino, e il suo sapore e soprattutto il portamento elegante, mi rimanevano conficcati nella mente intanto che tornavo verso casa, partito in anticipo sull’orario di chiusura per non trovarmi impegolato nella calca.

A distanza di tempo, anziché affievolirsi, la curiosità si è fatta via via crescente. Mi domandavo come fosse possibile che, con tutta l’autoctonia vinicola che si trova nella Puglia, non mi abbandonasse l’idea di un rosso bordolese fatto in Salento. A essere più preciso, la domanda che mi ponevo era perché quel Cabernet l’avessi trovato così intimamente salentino, tanto da ricordarmelo a lungo.

Ho sempre nutrito l’idea che, nei vini più interessanti, il senso del terroir prevalga di gran lunga sul vitigno. Il vitigno è uno strumento nelle mani del vignaiolo, non è l’essenza del vino. Vero che in certe terre i secoli e le comunità hanno fatto selezione, e oggi in quei luoghi ci si concentra su poche varietà, ma non tutto il mondo è Borgogna o Barolo, e in altri territori c’è spazio per la pluralità viticola. Penso, ad esempio, a quanto accade nel Sud della Francia, dove si sperimenta di continuo, e con successo. L’importante è che lo strumento non prevalga sul senso del luogo.

Siccome ho parlato di uve da considerare strumenti, provo a spiegarmi meglio con un esempio musicale. Mi piace la musica minimalista e sono un estimatore del compositore americano Terry Riley. Ascolto abbastanza spesso (la tengo in sottofondo mentre viaggio) la sua composizione “In C”, tappeto sonoro del 1964 costruito su un “do” di pianoforte ripetuto all’infinito (il “do” per gli anglosassoni è “c”). Cinquant’anni dopo, nel 2014, un gruppo di musicisti britannici e maliani incise “In C Mali”, prevalentemente eseguita con strumenti tradizionali africani. In teoria, la versione originale e quella proveniente dal Mali non potrebbero essere più agli antipodi, in pratica lo spirito dell’opera traspare sempre netto. Quel che conta non sono gli strumenti.

L’ho fatta lunga per dire che “quel” Cabernet salentino l’ho riprovato adesso. Anzi, ho riprovato esattamente l’imbottigliamento che già assaggiai a Vinitaly a confronto con un nuovo imbottigliamento da una vasca che ha ricevuto alcuni assai benèfici mesi di affinamento in più. Il primo imbottigliamento era del novembre dell’anno scorso, il secondo del maggio di quest’anno. Come accade per i vini che hanno personalità, l’attesa ha giovato.

Soprattutto, ho visto la vigna e ho camminato la terra, nella contrada Specchia del comune leccese di Parabita. La terra mi ha impregnato le scarpe, arrossandole. Nel Salento succede.

La cantina di chiama Tenuta Liliana, è nata nel 2018; per ora è uscito solo il Cabernet, annata 2021. Altri stanno maturando, e promettono bene. Fretta non ce n’è. Se non sono il primo a scriverne, poco ci manca.

L’azienda è figlia di un sogno. “L’attività imprenditoriale nasce sempre da un atto poetico” mi ha detto l’artefice, Antonio Intiglietta, imprenditore lombardo di radice salentina, specializzato soprattutto (ma non solo) nell’attività fieristica. La frase me la sono annotata, la faccio mia. Parole di miele gliene ho carpite altre. Per esempio queste: “L’utile è una conseguenza dell’attività imprenditoriale, non è la finalità”. Mi piace sentirle pronunciare di questi tempi, nei quali il senso vero della responsabilità sociale che si dovrebbe avere nel fare attività d’impresa mi pare che sia andato offuscandosi. La mia impressione è che Intiglietta questo senso l’abbia bene interiorizzato, e traspare quando spiega il motivo che lo ha spinto a comprare le terre e a recuperarle all’agricoltura, dopo il dramma della xylella che ha devastato gli oliveti, e a vitarle; guardandosi intorno dal tetto di una pagliara recuperata – uno di quegli antichi edifici di pietra sparsi nella campagna, che somigliano a dei trulli -, mi dice: “Questa cosa ci è stata data, non si può lasciarla andare”.

La cantina è ricavata da una cava di tufo dismessa. Se un giorno incontrassi Angelo Giaccari, l’architetto che l’ha progettata, gli stringerei la mano, per come ha saputo integrarla nel paesaggio. La mano l’ho stretta alla moglie di Intiglietta. Mi ha impressionato la sua serenità. Liliana è lei, “perno forte di una famiglia unita, legata al territorio e alle tradizioni”, come afferma Antonio. Davanti alla cantina svetta un enorme blocco di tufo mai cavato, che somiglia a una scultura. “Dobbiamo creare esempi” dice Intiglietta. Questo è un bell’esempio.

Il vino, adesso, il secondo imbottigliamento, ossia la versione effettivamente in commercio. Ha una tessitura tannica compatta, di un nitore luminoso, soppalco perfetto su cui lasciare libertà di movimento ai frutti rossi carnosi e alle essenze che profumano di Mediterraneo. Memorie di mirto, di anice, di finocchietto, di lecceta scossa dal vento. Il sorso sa di sale, di mare. È un vino che parla di territorio e di Salento. Dell’eleganza ho detto in apertura, confermo.

Una scoperta. Credo che se ne accorgeranno presto in molti.

Salento Cabernet Sauvignon Ladame 2021 Tenuta Liliana
(96/100)