Vigna Liuzza e la nuova idea del Morellino

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Fabio Rizzari ha posto l’interrogativo giusto, quando ha stimolato a valutare quanto possa essere plastico il sangiovese nell’interpretare i singoli luoghi nei quali questo vitigno – indubbiamente tra i più importanti d’Italia – cresce e fruttifica, e più nello specifico quali siano le modalità attraverso le quali il sangiovese possa tradurre, nel vino, i singoli suoli dell’areale maremmano nel quale si produce il Morellino di Scansano. Perché, dico io, tra le molte terre del sangiovese, effettivamente quella in cui il sangiovese ha il nome di morellino non mi sembra che sin qui abbia espresso un’identità chiara, univoca, e anzi spesso a mio avviso è rimasta contratta e celata da una ricerca di concentrazione che rendeva difficoltoso coglierne i tratti distintivi.

L’occasione per riflettere sul sangiovese che si alleva a Scansano è stata la presentazione, a Milano, del progetto Morello ideato dalla cantina Roccapesta e dalla distribuzione Pellegrini, mettendo in campo una partnership inedita, che direi abbia potenzialmente le carte in regola per aiutare il territorio a definire meglio il proprio linguaggio enologico, attraverso una strada nuova per la zona, fondata com’è sulla valorizzazione dei singoli appezzamenti e delle loro caratteristiche distintive in termini di interazione con la vigna.

Il progetto di Roccapesta e Pellegrini si articolerà sullo studio, e sulla conseguente traduzione in vino, di cinque diversi areali, che si articolano e distinguono per origine geologica, altitudine, esposizione, età dei vigneti, tipologia di terreni e cloni di sangiovese impiantati. Il tempo dirà se si potranno connotare con quelle prerogative che in Francia definiscono tipiche dei cru. Per il momento, infatti, una sola delle cinque vigne ha già dato il proprio vino, e il vino è il Morellino di Scansano Vigna Liuzza. L’esito che ne ho tratto è molto positivo, in termini di sostanza del vino e del progetto.

Mi ha colpito, quel vino, per la sua integrazione vitale di freschezza e di sapidità. Vorrei dire che si tratta di una freschezza marina, che fa da abbrivio a una gioiosa florealità estiva. Nel contempo, il carattere è saldo, da rosso “classico”, asciutto e serio, con una chiusura tutta all’insegna della croccantezza del frutto. Sorprende e mi rallegra quest’estensione, questa dinamica ampiezza aromatica di un vino che proviene da una zona che mi aveva spesso abituato, invece, a rossi più compatti, onestamente lontani dalla mia idea di beva. Questo vino l’ho bevuto con piacere.

Mi piace anche che il vino abbia il nome della famiglia – i Liuzza – che scoprì e vitò quell’appezzamento. Perché il vino è sì fatto di vitigno e di suolo e di clima, ma anche e soprattutto di umanità. Giuseppe Liuzza, siciliano, emigrò in America a cercar fortuna e poi rientrò, nel 1980, perché voleva coltivare la terra. Scelse Scansano. Con la moglie Antonina e con i figli assemblò un podere da ottanta ettari. Poi il male se lo portò via. Gli subentrò Alberto Tanzini, il proprietario di Roccapesta, e da una parcella di quella vigna scaturì il progetto. Tanzini volle che il vino avesse il nome dei Liuzzi. “Senza di voi – disse loro – non esisterebbe né il vigneto, né il progetto”.

A me, Alberto Tanzini ha detto che la volontà di Roccapesta è concentrata sull’individuare l’identità del sangiovese tipica di Scansano, e questa volontà è sorretta dall’evidenza di quanto possano essere personali e perfino umorali i vini che provengono da parcelle diverse. Ne sono state scelte cinque, come ho detto. Ne attendo i vini con una qualche impazienza, alla luce dell’esito avuto dal primo dei cinque.