Questo è uno dei vini più buoni d’Italia. Mi permetto di dirlo anche se è un vino dolce, o forse proprio perché è un vino dolce, e so che qualcuno storce il naso davanti a un vino dolce. Però all’inizio ho detto che è uno dei vini più buoni d’Italia senza specificare che è dolce, e lo rimarco, dato che non mi piacciono gli steccati. Il vino è vino, e basta. Comunque, se proprio vogliamo parlare di vini dolci italiani e, come in questo caso, di vini dolci veneti, ammetto che a me piacciono molto, perché penso che i vini dolci come li sappiamo fare in Italia con la nostra varietà di interpretazioni territoriali non ci riesca nessun altro al mondo, e poi perché a fare un vino dolce che, come in questo caso, ti si appicciccano le labbra e le dita da quant’è dolce ma non sembra nemmeno dolce, serve una maestria di quelle rare e anche perché sarebbe l’ora di rivalutarli, i vini dolci, e di finirla di pensare che si debbano bere per forza solo alla fine del pasto, dato che sono, prima di tutto, vini, e il fatto che siano dolci è un corollario.
Il vino che mi ha spronato a scrivere queste cose è il Raboso passito che producono i Bonotto delle Tezze a Tezze di Piave, frazione di Vazzola, in provincia di Treviso. Il raboso che si fa appassire per tirarci fuori questo vino è quello che viene chiamato raboso del Piave. Insomma, il fiume Piave c’è dappertutto, e ce n’è in qualche modo la memoria anche dentro al vino, perché ha la profondità delle argille, la tensione ghiaiosa dei sassi lasciati indietro dal fiume e un certo che di rabbia che somiglia a quella dei fiumi bizzosi come la Piave, che a volte è calma e placida, come dice la canzone patriottica, e a volte s’insusta, come diciamo nel Veneto di chi gli prendono i cinque minuti. Più Piave di così non si può.
Il raboso, sia detto per chi non lo sa, è un’uva rossa. Ha in sé un’acidità di quelle che se non la domestichi ti sembra di mangiare un limone. Prima che sia pigiata, l’uva resta in solaio per centoventi giorni, poi quel mosto zuccheroso va avanti a fermentare fino a primavera. Da un quintale d’uva si tirano fuori una quindicina di litri di un vino rosso dolce che sa di amarena, di mora di gelso nero e di mora di rovo, di cioccolato al latte e di prugna secca, e ha un tannino vivido e un’acidità indomita, com’è giusto e tipico che sia per l’uva del raboso, e dunque va bene centellinarlo nei bicchieri comprati al mercato dell’antiquariato, come dicono i Bonotto (“il Passito evoca ricordi della nostra infanzia quando a noi piccoli era consentito, in particolari occasioni, di assaggiarlo da microscopici bicchierini di vetro scuro decorato”), ma io me lo verso in porzione generosa e me lo bevo di gusto e ci schiocco la lingua sul palato per la soddisfazione, come facevano i vecchi una volta. Ci metto accanto una fetta di sopressa, la polenta abbrustolita, il lardo, la pancetta arrotolata e il pan biscotto. Se lo trovi, per stare in tema ti propongo di mangiarci assieme qualche scaglia di formaggio Piave, quello vecchio selezione oro di Lattebusche. Insomma, io con questo vino ci faccio merenda e cena, e penso a chi, poveretto, resta fermo all’idea che un vino dolce si beva solo, eventualmente, a fine pasto. Macché, si beve quando ne hai voglia, santo cielo, e questo ti fa proprio venir voglia di berlo.
Dirai: dolce, ma quanto dolce? Te lo dico subito: novantacinque grammi di zucchero per litro, che è un bel po’. E poi, acido, ma quant’è acido? Sono 9,5 grammi per litro, che è un’acidità che se non ci fosse la dolcezza ti taglierebbe la lingua a pezzettini. Lo vedi che c’è equilibrio? Lo vedi che è un vino da bere? Lo trovate intorno ai 25 euro in bottiglia da mezzo litro, e per quel niente che vien fuori dall’uva e il gran vino che è, non si tratta di chissà quale prezzo. Io ne ho comprate sei bottiglie, e mi pento di essermi limitato a sei.
Veneto Raboso Passito 2020 Bonotto delle Tezze
(98/100)

