Francesco Liantonio è una delle maggiori figure istituzionali del vino italiano. È presidente di Valoritalia, di gran lunga la più importante società di certificazione delle denominazioni di origine, è vicepresidente di Federdoc, l’organismo che riunisce i consorzi di tutela, è presidente del consorzio di tutela della piccola galassia di Castel del Monte (una doc e tre docg), è produttore di vino con Torrevento, e in tal veste lo considero anche uno dei migliori produttori di vino rosa italiano, essendo il suo Castel del Monte Bobino Nero Veritas uno dei miei preferiti. La logica conseguenza è che quando Francesco Liantonio dice qualche cosa sulle prospettive del vino italiano, gli presto grande attenzione. E nei giorni scorsi – lo leggo su WineNews – Francesco Liantonio ha detto qualcosa su cui è bene riflettere: “Abbiamo però il dovere di rivedere il panorama delle denominazioni italiane, da cui emerge la debolezza del vino italiano: il piccolo deve entrare in sistemi più grandi, la denominazione del comune, che non ha i numeri per stare sul mercato, crea solo confusione. Dobbiamo essere molto più intelligenti, promuovendo le cento denominazioni più importanti, che possano trascinare tutto il sistema delle Doc italiane”. Si tratta di una posizione che nella sostanza condivido. Il problema è trovare la forma, il modo, e non è per niente facile.
Sono e resto convinto che nel mondo del vino e delle produzioni agroalimentari, piccolo possa essere bello, e spesso lo è, quando a prevalere è il contenuto identitario del prodotto, ma al contempo sono anche consapevole del fatto che l’essere piccoli e frammentati non permette di competere sul mercato e soprattutto di garantire il sostegno di una filiera complessa come è quella vitivinicola. Dunque, da un lato si tratta di tutelare ed esaltare le identità e dall’altra di possedere i mezzi economici e organizzativi per affrontare con potenziale successo una competizione che è somiglia sempre di più a una corsa a ostacoli. La qual corsa, in assenza di azioni coordinate rischia realmente di trasformarsi in un’azione confusionaria, nella quale il successo di una denominazione si trasforma nella difficoltà di un’altra denominazione contigua, costretta a fare da vasca di compensazione economica a quella che, magari solo per motivi congiunturali, sta andando meglio. Infatti, i contratti di compravendita dei grandi commercianti di vino non sono mai legati a una sola denominazione, ed è evidente che se i prezzi di un vino salgono molto in assenza della possibilità di scaricare i rincari sul distributore (e da questi sul consumatore), qualche altro vino deve calare per garantire la stessa marginalità complessiva al commerciante. Chi fa commercio di vini di un dato territorio, ragiona in forma globale su quel territorio: per lui, le singole denominazioni sono solo dei “di cui”. Se dunque chi fa commercio ragiona globalmente riguardo a un medesimo territorio, chi rappresenta i vini di quel territorio, spesso suddivisi su varie denominazioni, dovrebbe tutelarsi con azioni coordinate e globali, e non singolarmente. Liantonio ha ragione, bisogna ragionare su sistemi sufficientemente ampi.
Questo vuol dire abolire alcune denominazioni di origine e farle diventare delle semplici sottozone di denominazioni più grandi? In alcuni casi potrebbe funzionare, in altri casi potrebbe rivelarsi molto rischioso sia per la denominazione grande, sia per quella piccola. Ci sono anche altre soluzioni. Per esempio, si possono costituire dei consorzi di tutela di secondo livello che coordinino le attività di promozione dei consorzi di primo livello. Oppure si possono creare dei marchi collettivi che facciano da “cappello”, da polo aggregante nella promozione. Per esempio, lo stesso Liantonio ha favorito la creazione del marchio territoriale Puglia Sveva da parte dei consorzi di tutela dei vini di Castel del Monte e dell’olio dop Terra di Bari. All’estero ci sono casi di grande successo che vanno in questa direzione. In Francia, il comitato interprofessionale Vins de Provence coordina le denominazioni Côtes de Provence (che ha cinque sottozone), Coteaux d’Aix-en-Provence e Coteaux Varois en Provence. Sulla bottiglie delle denominazioni “comunali” dei vini di Borgogna figura il cartiglio “Grand Vin de Bourgogne“, che rafforza la percezione complessiva di tutti i vini borgognoni, così come sulle bottiglie delle denominazioni “comunali” dei vini di Bordeaux figura la dicitura “Grand Vin de Bordeaux“, che non mi pare stia dando i medesimi risvolti positivi dell’altro caso.
Temo tuttavia che in Italia l’adozione diffusa di questo genere di strategie sia resa difficoltosa da due tipiche anomalie nostrane, una legata al vino, l’altra legata al nostro modo di essere.
L’anomalia di settore è data dal fatto che, a partire in particolare dagli anni Novanta, abbiamo creato tantissime denominazioni “varietali”, che enfatizzano il nome, debolissimo, del vitigno al posto di quello, ben più forte, del territorio. Salvo eccezioni, in Francia i vini “varietali” sono quasi sempre appannaggio delle igp (le nostre igt), mentre le aoc (le nostre doc) sono sostanzialente legate al solo nome geografico. Risolvere il guazzabuglio italiano non è per niente facile.
L’anomalia culturale è la nostra radicata idiosincrasia nei confronti del successo altrui. Il Prosecco ha successo planetario? Tutti a sparlare del Prosecco, dicendo che non ha qualità, invece di considerarlo un potenziale traino per tutti gli altri vini italiani. I Måneskin hanno successo planetario? Tutti a sparlare dei Måneskin, dicendo che suonano male, invece di considerarli dei potenziali traini per tutto il resto della musica italiana. Capisco che questo rifiuto del successo altrui derivi dalla storia italiana, ben poco unitaria (sparlare del vicino era una necessità politica, nei tempi della frammentazione), ma continuare a farci del male mi sembra poco furbo (non uso l’aggettivo “intelligente” adoperato da Liantonio, perché in alcuni casi sarebbe chiedere troppo).