Giorgio Cecchetto è il vignaiolo visionario che portò alla ribalta un vitigno negletto e scontroso come il raboso del Piave. Non l’ho mai conosciuto, è scomparso poco più che sessantenne nello scorso settembre. Eppure, visitando ora la sua cantina, a Tezze di Piave, terra di arcaiche centuriazioni romane, è come se l’avessi incontrato nella composta e operosa efficienza dei figli Marco, Sara e Alberto e della moglie Cristina. Mi è sembrato di imbattermi nella stessa magia che sono capaci di esercitare quelle perfette squadre di calcio, che sembrano muoversi all’unisono, come sospinte da un meccanismo automatico, in virtù del quale ciascuno sa a memoria quanto deve fare, e il merito è certamente delle individualità, ma soprattutto dell’allenatore, che ha progettato l’assieme, sebbene lui se ne stia a bordo campo.
A metà degli anni Ottanta, Giorgio Cecchetto, giovane enologo, prese in mano l’azienda della quale il padre era stato mezzadro e si mise a testa bassa a macinare il progetto di fare grande vino rosso con il raboso. Con la contrarietà paterna, portò in cantina i legni nuovi, quando tutti erano infatuati dell’acciaio immacolato: “Ci siamo appena liberati dalle botti, tu le stai ricomprando. Invece di andare avanti, andiamo indietro” lo rimbrottava il genitore. Nell’intento di domare l’uva del luogo, sempre troppo aspra, sempre troppo tannica, Giorgio importò anche l’appassimento dalla Valpolicella, e l’applicò a una parte dell’uva, per dare una sensazione di morbidezza, di rotondità. Fu così che nel 1996 nacque il Gelsaia. Oggi la storia sta cambiando di nuovo, e l’appassimento, nel Gelsaia, diventerà solo un ricordo di un pezzo del tragitto percorso.
“Abbiamo capito – mi spiega Marco Cecchetto, cui oggi è affidata la prosecuzione del progetto enologico del papà – che il raboso può dare un grande vino già in campagna. Dunque, la quota di appassimento è stata gradualmente ridotta e si arriverà a eliminarla del tutto. La nostra idea, oggi, è di rinunciare all’appassimento: con il cambiamento climatico in corso, si può fare. Adesso il raboso raggiunge in modo naturale la maturità per fare un grande rosso da vigne di più di sessant’anni, e vogliamo permettere a tutte le nostre vigne di diventare vecchie, per dare grande uva. Soprattutto, voglio affinare il tannino. Deve essere molto più fitto, ma con meno asperità”. Concordo, è la maturità tannica il segreto di una grande vino rosso, soprattutto se l’acidità ce l’hai tutta in dote, come nel caso del raboso.
Del Gelsaia, antesignano della docg del Piave Malanotte, quest’anno è uscita l’annata 2020, la tredicesima, perché non si fa in tutte le vendemmie. Ne ho potute assaggiare cinque versioni, come si dice, in verticale, ossia in sequenza storica. Le racconto qui sotto.
Piave Gelsaia 2002 Cecchetto. Un terzo circa di uva fresca, un terzo di uva appassita in pianta con la tecnica del taglio del tralcio, un terzo di uva appassita in fruttaio. Balsamico e pepato. Seppure evoluto, sprigiona un’acidità tipicamente veneta, che tiene a bada la morbidezza. Rende l’idea di cos’era il Gelsaia in quell’annata, che per l’evoluzione climatica ricorda un po’ la 2023. “Solo che quest’anno il taglio del tralcio non è servito, con le temperature che ci sono state; e poi con il taglio del tralcio aumenta anche l’acidità, e di quella ne abbiamo anche troppa” racconta Marco.
Piave Malanotte Gelsaia 2009 Cecchetto. Millesimo di esordio della docg. Malanotte è un borgo storico: il nome è quello della famiglia di mercati di lana che vi si era insediata, a ridosso del guado sul Piave. Nel 2009, l’appassimento era sceso al venti per cento, nella composizione del Gelsaia. Il vino, però, è in fase calante. “A volte – commenta Marco – il raboso è subito pronto e regge meno il tempo”.
Piave Malanotte Gelsaia 2011 Cecchetto. Ecco che torna il pepe, insieme con l’acidità esuberante, che conferisce tensione nervosissima e scalpitante. Il frutto è nero, croccante, succoso. Il tannino è serissimo. Eh, sì, questo vino è molto, molto buono. “Essendo una varietà tardiva – spiega Marco -, nel 2011 il raboso ha beneficiato più delle altre uve degli abbassamenti termici di fine settembre e dei primi di ottobre. Ciò ha comportato un notevole accumulo di antociani e di sostanze aromatiche nelle bucce e, soprattutto, la coincidenza delle maturazioni fenolica e tecnologica, un sincronismo che non si vedeva da anni”. (92/100)
Marca Trevigiana Gelsaia 2017 Cecchetto. Nella seconda metà dell’aprile 2017 ci fu una gelata che ridusse drammaticamente il numero delle gemme, portando a una scarsa produzione d’uva. Tuttavia, quasi a compensazione, quella poca uva poté beneficiare di un’estate e di un autunno perfetti, che produssero un’elevata gradazione zuccherina. Era talmente tanto, lo zucchero, che la fermentazione non riuscì a trasformarlo interamente in alcol. I Cecchetto scelsero di rispettare il carattere anomalo dell’annata e di conseguenza fecero uscire il Gelsaia sotto l’igt della Marca Trevigiana, essendo la dolcezza superiore a quella concessa dalla docg. A me il vino piace, nella sua anomalia. Il tannino e la proverbiale acidità del raboso bilanciano la morbidezza. La stoffa è rustica e robusta, le vene balsamiche ingentiliscono l’assaggio. Potrebbe avere un’evoluzione sorprendente. (90/100)
Piave Malanotte Gelsaia 2020 Cecchetto. Il nuovo nato. Per certi versi, fa pensare al Gelsaia del 2011, ma amplificato in ogni singolo dettaglio, anche in termini di ulteriore equilibrio tra la tannicità e la freschezza. L’impalcatura è solidissima e sostiene con sicurezza un frutto cesellato. Certo, è un giovinetto e va atteso ancora un po’, ma promette gran bene. (93/100)