Qui parlo del vino e della commozione

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Che sentimento dolcemente feroce è la commozione. Ti avvince e disarma, ti rivela. L’ho incontrata negli occhi arrossati di Alessandro François, un pacato signore più anziano di me, che coltiva la vigna e la memoria. L’ho avvertita che mi entrava nel cuore e mi scavava dentro, mentre lui contemplava la valle dall’alto del camminamento e lo sguardo gli si velava nel dirmi di Maria Antonietta, la moglie, mancata sul finire del 2021. Avevano da pochi mesi celebrato i sessant’anni di matrimonio, una vita. Ecco, in quel preciso istante che me ne parlava, Alessandro ha tratto come un sospiro breve e composto, che però mi è sembrato eterno; un vuoto immenso si è frapposto tra i muri di pietra squadrata e il cielo terso e il verde dei colli e del giardino. Io che cerco l’umanità del vino, l’ho trovata in quell’assenza tangibile, e ho provato un senso di gratitudine profonda.

Alessandro François è il proprietario del Castello di Querceto e della sua tenuta, a Greve in Chianti. L’azienda è importante, appartiene alla famiglia dal 1897, quando l’acquistò Carlo François. Nei primi anni Sessanta versava in declino. Alessandro e la moglie presero il coraggio a quattro mani e ne intrapresero il rilancio. Alessandro, però, era ingegnere, non poteva abbandonare d’un tratto i cantieri. La moglie lo precedette in Toscana.

Il padre di Alessandro aveva lasciato la tenuta nel 1959, dopo la morte di sua madre. “Non poteva amare questo luogo”, mi dice François. Durante i giorni della guerra, la famiglia era sfollata lì da Firenze, convinta di trovare quiete. Invece, quella divenne la linea del fronte. I tedeschi avevano insediato il comando al castello. Quando fuggirono, lasciarono dietro di sé una scia di sangue e di pianto. Assassinarono sette persone che lavoravano le campagne e ne rastrellarono altre ottanta. Solo venti tornarono dai campi di concentramento. Uno dei venti fu il padre di Alessandro.

A dire il vero, quando si accinsero al rilancio della tenuta, né Alessandro, né Maria Antonietta se ne intendevano di vino. D’accordo, il Castello di Querceto era stato tra i fondatori del “Consorzio per la difesa del vino tipico del Chianti e della sua marca d’origine”, nel 1924, ma bisognava capire se il gioco valesse la candela. I vecchi sostenevano che ci fosse un vigneto migliore degli altri. Si chiamava la Corte. In cantina, Alessandro trovò il vino della Corte. Ne imbottigliò, a mano, una parte e siccome in quel periodo, dirigeva i lavori di un impianto petrolchimico dalla parti di Cremona e una volta alla settimana si recava a cena da Franco Colombani, mito della cucina italica e della sommellerie, all’Albergo del Sole, a Maleo, ne portò un paio di bottiglie. La settimana successiva, Colombani gli chiese quante bottiglie ne avesse. “Ne ho novecentoquindici”. “Te le compro tutte”. “Tutte no, ma metà te le do”. Il dialogo fu questo. Quanto al prezzo, Colombani decise di pagargli cinque volte il valore corrente. Ecco la prova, era il caso di insistere.

Da bevitore, ripeto che ringrazio il cielo di quell’incontro, e della caparbietà di Maria Antonietta e di Alessandro, e anche del rinnovato fervore di Simone, il figlio, e della famiglia. Perché i vini sono uno splendore. Apprezzo, inoltre, il rimettersi in gioco, lo scavo sempre più convinto e solerte nell’indole del territorio, nella vocazione di ogni singola vigna e di ogni singola annata, rappresentandoli – vigna e annata – senza frapporre alcun filtro. Mi piace quando si lavora a togliere il superfluo da un vino, per restituircene, nuda, l’essenza. È, in fondo, lo stesso gesto che compie lo scultore: da un blocco di marmo, toglie il di più, per rendere concreta l’intuizione. Aggiungo che ho appreso con favore l’idea di allungare le uscite dei vini, di attendere pazienti che siano pronti a proporsi compiuti.

Ora dico dei vini. Dico anzi dei due Chianti Classico Gran Selezione che si producono al Castello di Querceto. L’uno viene dal vigneto della Corte, l’altro da quella del Picchio. Le vigne sono sui lati opposti della valle. La Corte è su suoli sabbiosi, il Picchio sull’argilla. Sapere dei suoli è importante perché ti prepara a disvelare il vino. La sabbia induce sentori salmastri e snellezza, l’argilla è fattrice di rossi di struttura. La Corte è piantata unicamente a sangiovese, e per questo un tempo ne usciva un vino da tavola e poi un igt, non essendo previsto che il Chianti Classico fosse di solo sangiovese; sul Picchio c’è anche una piccola parte di colorino, com’è giusto che sia, stante il carattere robusto del vino che se ne ricava. La Corte ha le vigne più vecchie, ripiantate negli anni Settanta recuperando i cloni originari, quelli di fine Ottocento, il Picchio è del 1983. Di entrambi ho assaggiato tre annate, la 2018, la 2019 e la 2020.

Chianti Classico Gran Selezione La Corte 2020 Castello di Querceto. Primo assaggio, sufficiente per farmi segnare un promemoria per l’acquisto, quando sarà sul mercato. Snello, scattante e insieme però anche austero in quel modo che mi fa subito pensare a Greve e al Chianti Classico. Il sorso è lungo e sapido. Promette eleganza e longevità. (96/100)

Chianti Classico Gran Selezione La Corte 2019 Castello di Querceto. È l’annata ora in commercio. Terroso come mi aspetto dalla quintessenza di un Chianti Classico, ha fiori e fogliame essiccati e l’humus del sottobosco e il tabacco e il tamarino, e insomma una complessità ampia e fascinosa e al contempo austera. Il sale dà l’allungo. (94/100)

Chianti Classico Gran Selezione La Corte 2018 Castello di Querceto. Fu la seconda annata dopo l’ingresso nella denominazione, si avverte netto l’avvio del percorso virtuoso verso le prospettive attuali. Il vino esprime infatti un’idea di maggiore compattezza, il tannino è rigoroso. C’è una traccia di eucalipto sottesa al frutto maturo. (90/100)

Chianti Classico Gran Selezione Il Picchio 2020 Castello di Querceto. L’assaggio è in anteprima, il vino uscirà in gennaio. Il cambio di vigna è palese già nel colore, più marcato, ancorché cristallino. Nervoso, scattante sia nel sorso che nel tannino ancora indomito. Ha un frutto nitido e croccante d’amarena. Promette gran bene. (95/100)

Chianti Classico Gran Selezione Il Picchio 2019 Castello di Querceto. L’impronta di fogliame secco mi dà l’idea di una passeggiata autunnale nei boschi. Il vino si concede quasi con timidezza. È uno di quei casi nei quali sarebbe prezioso il decanter, che permetta all’ossigeno di fare la sua parte. Chiama la pazienza dell’attesa. (90/100)

Chianti Classico Gran Selezione Il Picchio 2018 Castello di Querceto. Resto sorpreso dall’assoluta giovinezza. È un vino che beneficerà degli anni che passano, e porterà in luce, col tempo, quei ricordi di mora e di ciliegia che oggi scalpitano ancora sotto un tannino possente e troveranno nella freschezza una fedele alleata. (94/100)