Il Prea Rosso delle pietre rosse di Erbìn

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In lingua veneta “préa” significa pietra. Lassù, oltre i seicento metri di altitudine e fino ai settecento, sulle colline della contrada di Erbìn, è tutta pietra. Fino a meno di una decina di anni fa, sulla pietra c’era soltanto un prato pascolo magro per le capre, e invece adesso c’è la vigna. A portarcela è stata una cantina, La Collina dei Ciliegi, che ci produce un vino bianco e un vino rosso, ai quali ha dato il nome di Prea. Sono stato alla presentazione del Prea Rosso. Ne sono uscito convinto che esista il potenziale per farne uno dei vini più eleganti che siano mai stati prodotti in terra veronese.

Chi cercasse notizia di località Erbìn vedrebbe che è nel comune di Grezzana, e dunque a ridosso della Valpantena, la quale, a sua volta, appartiene al territorio della Valpolicella. In effetti, alla Collina dei Ciliegi producono Valpolicella e Amarone, ma il Prea è un progetto a se stante, che non va sotto le denominazioni di origine, e a vedere le vigne, che pure, per il rosso, sono in prevalenza di corvina veronese, se ne capisce la ragione. Sono piantate fittissime, all’incirca a settemilasettecento ceppi per ettaro, che sono proprio tanti, e vengono tenute basse basse, col filo di posta a cinquanta centimetri dal suolo, e coi filari distanti appena un metro e trenta l’uno dall’altro, che fatichi a passarci in mezzo. Seguono l’andamento scosceso del terreno, senza terrazzamenti, e di uva ne fanno poca, tra i quaranta e i sessanta quintali per ettaro, e quest’uva è acidissima e sapida, votata a tutt’altro che a quella concentrazione che ha reso noto nel mondo il modello enologico valpolicellese. A Erbìn nasce un rosso rarefatto, che rifugge la grassezza del frutto, sebbene non manchi di consistenza tattile, la quale, anzi, viene sospinta e ravvivata dalla sapidità fin verso un finale finissimo e assai persistente. D’accordo, la vigna è giovane, e si sente, ma è come se già si intravedesse il futuro, e lo si pregustasse, pensando a quale bellezza scaturirà da quel luogo nel prossimo decennio.

Il come e il perché del progetto me l’hanno spiegato Massimo Gianolli, il presidente della Collina dei Ciliegi, e Christian Roger, che è vicepresidente, nonché quella coppia di geni del terroir che sono gli agronomi francesi Lydia e Claude Bourguignon.

Vado un passo per volta.

Quello di Gianolli è una specie di devozione filiale. Le terre di Erbìn le aveva comprate il padre Armando, tornato, da Biella, nei luoghi nei quali era stato svezzato. Massimo ci trascorse l’adolescenza e la prima giovinezza, tra i quattordici e i ventiquattro anni, lavorando la campagna. Poi raggiunse il Biellese per dedicarsi alla finanza nell’impresa paterna. Mise in piedi una boutique finanziaria, ebbe grande successo, ma il richiamo della terra restava, e volle piantare i vigneti sui terreni acquistati dal padre. Incominciò a produrre i rossi della Valpolicella, ma è un uomo che nutre quell’ambizione all’eccellenza che è propria degli imprenditori, e dunque si mise in testa di voler fare, lì a Erbìn, “i più buoni vini d’Italia”. Chi fa impresa è così, un visionario. Il socio francese, Roger, gli disse che prima di coltivare un sogno del genere si doveva verificare se il terroir fosse davvero vocato, e soprattutto per quali vitigni. Fu per questo che nel 2017 chiamò i suoi amici Bourguignon, i quali incominciarono a fare quelli che chiamano “i buchi”, scavi fondi due metri, per vedere che cosa ci fosse là sotto. “Mi hanno fatto assaggiare la terra“, dice Massimo, e loro confermano con un cenno energico del capo.

Trovarono suoli vergini, ricchissimi di vitalità, e trovarono le terre rosse, ricche di ferro, e quelle bianche, dense di calcare attivo, e dovunque un’alta percentuale di magnesio. Spiegarono che in Borgogna c’è la convinzione che “la terra rossa è per il vino rosso e la terra bianca è per il vino bianco” e applicarono la stessa teoria lì a Erbìn, facendo piantare corvina e teroldego sui terreni rossi e garganega, pinot bianco e chardonnay sui suoli bianchi. Poi dissero che il magnesio è quello che dà un gusto diverso al vino italiano rispetto al gusto che si trova in altri luoghi, perché consente di avere quel cenno piacevole di amaro che accompagna il finale di sorso. Secondo loro, è proprio “il senso molto bello dell’amaro, che rende inconfondibile e “importante” il vino e la stessa cucina di noi italiani. Del resto, siamo la terra dell’amaretto, del carciofo, della cicoria, della rucola. Però sostengono anche che nel vino quest’impronta la si preserva solo se nel piantare le vigne non si frattura la roccia. “Non bisogna toccare la roccia! Mai usare macchinari che la spezzino, altrimenti è impossibile avere il gusto del terroir“. Così ha esclamato Claude Bourguignon. Dal canto suo, Lydia Bourguignon ha ribadito che per avere dei vini che siano davvero territoriali, occorre che le radici della vigna vadano molto in profondità, e per questo hanno indicato di piantare i vigneti ad altissima densità. “Più le vigne sono strette, più vanno in profondità. Se hanno posto, non ci vanno, soprattutto se sotto ci sono sassi. Sceglierebbero la via più semplice”. Da ricordare.

Le vigne sono state impiantate tra il 2018 e il 2023. La prima vendemmia in bottiglia è quella del 2021. Il Prea Bianco di quell’annata è uscito l’anno scorso, il Prea Rosso adesso. Il Prea Rosso sono andato apposta ad assaggiarlo e ho finito per berne un paio di bicchieri. È fatto di corvina all’ottanta per cento e il resto è teroldego. È un vino giovane, ma già aggraziato. Non vedo l’ora che escano i prossimi millesimi. Non mi farò sfuggire l’acquisto di almeno una bottiglia per annata, a cominciare da questa. Il prezzo a bottiglia è di cinquanta euro. Credo che ci sia un bel futuro che attende noi bevitori, lassù a Erbìn.

Rosso Verona Prea 2021 La Collina dei Ciliegi
(91/100)