Ho visto su Facebook che anche stamattina il parroco di Garda è andato a punta San Vigilio per celebrare la messa del patrono. Il patrono di punta San Vigilio, sulla riva veneta del lago di Garda, è San Marco, lo stesso di Venezia. È una memoria veneziana, infatti. La Serenissima tenne il lago per quattro secoli, finché arrivò Napoleone. Stamattina il parroco l’hanno portato fin là in motoscafo. Una volta ci si andava in processione, a piedi. Me le ricordo, quelle ormai remote processioni del 25 aprile, tra sacro e profano.
Prifanamente, di tanto in tanto s’alzava, strepitando, una voce femminile: “Sante spòrte piene, òra pro nobis”. Rispondevano gli altri in coro: “Sante spòrte ùde, òra pro nobis”. Era il popolino che si burlava un po’ del prete e delle litanie che accompagnavano la processione, quella che da Garda, sul “mio” lago, portava a punta San Vigilio la mattina del 25 aprile, giorno di San Marco e delle rogazioni, quelle che servivano a invocare l’intercessione divina sulle campagne, ma anche a controllare i confini della parrocchia. E la pieve di Garda ha giurisdizione anche su San Vigilio e sulla sua romantica chiesetta che si tuffa nel lago.
Oggi i gardesani non ci vanno più a piedi fino a San Vigilio e le giaculatorie sono un ricordo. Eppure c’è sempre parecchia gente alla messa mattutina nella chiesuola. Anche perché questa del 25 di aprile è l’unica occasione per entrarci. Poi ci si ferma sul porticciolo a mangiare uova sode e pane e salame.
Che cosa fosse il 25 aprile dei gardesani fino a tre o quattro decenni fa l’ha raccontato con ottima penna il compianto Pino Crescini. “Una volta – ha scritto – era un largo fiume, che si snodava variopinto lungo la strada bianca verso Torri, stretta fra cipressi e olivi. Già grosso partiva dalla chiesa e, a ogni sbocco di strada, s’arricchiva di famiglie e comitiva che vi s’imbrancavano, o s’accodavano, davanti al sacerdote salmodiante. E dal sagrato della chiesa fino a San Vigilio era tutto un dipanarsi di avemmarie e paternostri, cui tutti rispondevano cantilenando, eccetto i ragazzini che scherzavano e si pizzicavano e venivano presi a sberle dai papà”.
Il testo di Crescini è stato pubblicato postumo: il libro s’intitola “Parole che muoiono”.
“Via via – continua la narrazione di Crescini -, i passi si facevano più strascicati, i bambinelli frignanti venivano issati sulle spalle dei padri, le voci si facevano più fioche e roche. Finché si giungeva, oltre le Preare incoronate di gran cespi d’agave dai fiori azzurri, al culmine della salita. Il chierichetto con la croce si precipitava affannato giù pel viale opaco di cipressi che mena di fronte a villa Guarienti, e dietro a lui, accelerando e passo e litanie, la valanga dei fedeli. Sicché il prete in piviale si trovava all’improvviso solo, coi due chierichetti aggrappati ai fianchi, a consumare la restante via a passo solenne di processione”.
Ed ecco, nel racconto di Crescini, cosa accadeva finita la Messa: “Finalmente ci si poteva sparpagliare in libertà: era ora, sbatteva una fame! Famiglie, parentele, sciami di ragazzotti e signorine fra le còle di olivi, fra i dirupi dei Bechéti a specchio del Trép, sui ciottoli bianchi dell’armonioso seno di Sentrémole, coronato di alti pioppi stormenti. C’era chi s’arrampicava fin sulle balze di Gàrdole e di là chiamava i rimasti sulla riva. Sul tardi si ritornava in comitive sbrigliate, che s’allungavano o s’addensavano sul ciglio della strada, e nelle retroguardie s’imboscavano i morósi. Il prete che era più avanti, con la cotta sul braccio, seguito dal sagrestano impacciato dal piviale, ogni tanto guardava addietro con occhi tra bonari e severi”.
Questo era il San Marco dei gardesani, dei miei ex compaesani. Oggi non è più (del tutto) così. Ma la tradizione non è dimenticata. L’ho visto su Facebook. Evviva.