I giovani bevono vino

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Chi è stato a Vinitaly e al fuori salone di Vinitaly and the City si è reso conto di come la narrazione attuale delle dinamiche di consumo del vino sia quanto meno opinabile. Infatti, si continua a leggere e a sentir dire che i giovani non sono interessati al vino, ma in giro per i padiglioni della fiera veronese e nelle piazze cittadine io ci ho visto più trentenni stavolta che mai nel passato, e i trentenni appartengono a quella cosiddetta Generazione Z (‘ste definizioni generazionali mi fanno venire l’orticaria), che è la prima messa sotto accusa per l’abbandono del vino.

Non è vero che i trentenni non bevono. Semplicemente, bevono in maniera diversa, e a non averlo capito, o più probabilmente a fingere di non averlo capito, è l’industria italiana del vino, la quale si lamenta esattamente come fanno i bambini che hanno rotto il giocattolo. Il vero problema è che il giocattolo non è rotto. Il vero problema è che con quel giocattolo i giovani non ci vogliono giocare, perché non ci si riconoscono. I giovani che bevono vino – e sì, molti di loro bevono – lo fanno in maniera molto diversa dal passato e loro parlano lingue molto diverse dal passato, solo che si pretenderebbe che giocassero ancora con il giocattolo che fa comodo alle imprese del vino e che parlassero l’unica lingua, spesso farlocca, che vogliono parlare le imprese del vino.

Mi domando poi se le indagini statistiche che dimostrerebbero l’abbandono del vino da parte dei giovani non siano in qualche modo esse stesse viziate all’origine proprio da un problema di linguaggio, di strumenti e di sedi di raccolta delle informazioni. Sì, lo so che sono strumenti e metodi che hanno funzionato bene fin qui: li ho utilizzati molte volte anch’io, nella mia attività professionale. Ma siamo sicuri che i sistemi di inchiesta dei dati intercettino tuttora realmente la popolazione che vogliamo indagare? Ci dobbiamo ancora fidare totalmente di meccanismi di investigazione che sono soprattutto quantitativi? Prendiamo la grande distribuzione: probabilmente lì è vero che i giovani non comprano il vino, ma per capire perché non lo comprano dovremmo domandarci prima di tutto se l’assortimento di vini presenti sugli scaffali sia idoneo. La domanda è retorica perché so già la risposta: no, non lo è per niente, e anzi è lontana anni luce dalla possibilità di intercettare gli acquisti giovanili.

Alle altre domande che ho posto non so dare una risposta. Io so solo che quelle domande mi sono venute nel vedere i trentenni che affollavano Verona, e c’erano anche, soprattutto a Vinitaly and the City, parecchi ventenni, ed erano molto, molto interessati: per averne la conferma bastava andare a vedere quel che succedeva nell’area delle masterclass tenute da una infaticabile Sissi Baratella, sempre sold out, e sempre piene soprattutto di giovani. Come la mettiamo, dunque, con i piagnistei dei vinificatori?

D’accordo, checché ne dicesse Shakespeare, Verona non è il mondo, e di mondo ce n’è tanto fuori della mura scaligere, e dunque il caso dei giorni veronesi di Vinitaly può non far testo, ma io a Verona la gran parte dei sermoni pre fiera li ho visti smentiti. Se la percezione della realtà è così diversa dalla percezione che risulta dalle teorie degli addetti ai lavori, secondo me sarebbe il caso di rifletterci un bel po’, per capire che cos’è che non funziona più nei meccanismi di analisi che si sono utilizzati finora.