Garofano e una storia di vivace eredità

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Nell’accingermi a scrivere dei vini dei Garofano mi sento in imbarazzo, combattuto tra la memoria di uno dei più grandi uomini del vino che io abbia avuto la fortuna di incontrare – Severino Garofano – e l’ammirazione per il lavoro che stanno conducendo, rispettosamente, ma con lucida capacità di innovazione, i figli – Renata e Stefano.

Ciascuno ha i propri eroi. Nel mondo del vino, uno dei miei è Severino Garofano, protagonista della rinascita e dell’affermazione dei vini del Meridione. Firmò grandi bottiglie, ma per me, alle origini del mio interesse per il vino, fu educativo soprattutto il Copertino che vinificava per la cantina sociale di Copertino, esempio lampante di come si possano conciliare beva ed eleganza a prezzi popolari. Incontrai Severino Garofano una sola volta e restai impressionato dalla sua lucidità di analisi. Oggi a rivivificarne l’eredità sono i figli Renata e Stefano, che gestiscono l’azienda di famiglia e già lo affiancavano con le loro idee (la cantina ha sede proprio a Copertino, in terra leccese). Nel loro caso, occorre parlare di un’eredità vivace, poiché ritengo di poter affermare che abbiano già saputo imboccare una strada autonoma che, pur fedele alla filosofia paterna, è capace di leggere e interpretare la contemporaneità. Insomma, oggi sono loro a mettere la firma in toto sui vini di casa, ancorché con coerenza all’imprinting originario. Non è per niente facile riuscire in una simile impresa (a me tremerebbero i polsi solo a pensarla), e ancora meno lo è farlo con la loro pacata determinazione, dove pacatezza e determinazione non sono contrastanti.

Credo che il simbolo di questa ricerca sia il Clo’ di Girofle, un rosato salentino che è figlio di una selezione di uve di negroamaro e che nasce con lo scopo preciso di mettere in evidenza la capacità dei rosati di negroamaro di durare nel tempo (qui c’è un piccolo saldo di montepulciano), obiettivo testimoniato da scelte tecniche precise, come l’affinamento di quattro o cinque mesi in cemento e l’uso della bottiglia in vetro scuro, opzione così rara tra i vini rosa, nei quali la vista del colore è solitamente una leva di marketing essenziale. Da rosatista qual sono, benedico queste scelte. Ho avuto l’occasione di assaggiarlo, il Clo’ di Girofle, insieme con il più classico Girofle, uno dei vini simbolo tra i rosati del Salento, e con due vini rossi che rientrano a pieno titolo nel mio Olimpo enoico italiano, ossia l’Eloquenzia e Le Braci. In tutti ho ritrovato quell’anima straordinariamente terragna e territoriale che sanno avere i vini salentini e il negroamaro, con i ricordi di terre rosse e di spezie finissime che fanno guardare ad Oriente, e quella traccia di vento salato che spira dai due mari. Vini che sono una certezza di espressione del senso di appartenenza, ed è bello avere certezze nella vita.

Salento Rosato Negroamaro Girofle 2022 Garofano. Dicevo qui sopra che si tratta di un rosato classico, e infatti è tra quelli che hanno segnato la storia recente del vino rosa del Salento. Fragole e spezie e sale. Godibilissimo come sempre. (88+/100)

Salento Rosato Negroamaro Clo’ di Girofle 2022 Garofano. Clo’ come il clove, il chiodo di garofano, ed è la spezia che prevale nel pot-pourri di questo serissimo Rosato, che merita ulteriore (lungo) tempo in bottiglia e mai temperature fredde. (91/100)

Copertino Rosso Eloquenzia 2019 Garofano. Ha un colore rubino da negroamaro e un sorso austero, speziato, denso di terra rossa bruciata dal sole, buccia di arancia, e poi tanto, tanto sale. Un vino di grande eleganza, per me imperdibile. (93/100)

Salento Rosso Negroamaro  Le Braci 2016 Garofano. La tinta vira al granato, a mostrare l’affinamento lungo, e i profumi si intridono di tamarindo, di nocino, di manciate di spezie, e al sorso c’è nuovamente il sale. Un fuoriclasse. (94/100)