Fioccano multe per le carte dei vini, e se in Italia…

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Il sistema di classificazione dei vini europei prevede che esistano i vini a denominazione di origine, i vini a indicazione geografica e i vini generici.

I vini a denominazione di origine tutelano il consumatore riguardo all’origine specifica, spesso molto ristretta, del vino che intende bere, e sono soggetti a regole molto stringenti e a controlli severi, che conducono all’emanazione di una specifica certificazione da parte di un organismo a ciò qualificato. I vini a indicazione geografica hanno regole meno rigide e dicono quale sia l’ambito geografico più o meno esteso da cui provengono le uve utilizzate per produrre il vino. Il vino generico dice solo in quale nazione sia stato fatto il vino, e dunque non ne viene garantita nient’altro che la provenienza nazionale, per cui, nella teoria e spesso nella pratica, si può legittimamente trattare di una miscela di vini fatti in diverse regioni o con uve che vengono da territori disparati.

In Italia appartengono alla prima categoria i vini doc e docg e alla seconda gli igt, mentre la menzione Vino d’Italia è usata quasi solo per dei vini venduti a prezzo molto contenuto, come il Tavernello in brick, che infatti riporta sulla confezione la dicitura Vino Rosso d’Italia o Vino Bianco d’Italia. In Francia, invece, accanto ai vini aop (ossia i nostri doc e docg) e ai vini igp (i nostri igt), sono sempre più diffusi i Vin de France, in molti casi prodotti come vini di punta da vignaioli famosi, com’è il caso del Silex di Dagueneau, che in enoteca va intorno ai 250 euro a bottiglia, o il rosso di Château Le Puy, che sta intorno ai 50, e ovviamente nelle carte dei vini dei ristoranti raggiungono quotazione ancora più alte.

Su come questi vini generici vengono elencati nelle carte dei vini ha incominciato a farci attenzione la Direction générale de la concurrence, de la consommation et de la répression des fraudes, ossia la Repressione Frodi francese. Infatti, la Revue du Vin de France riferisce che i controlli si sono intensificati. Lo sollecita una circolare del 9 luglio della medesima Direzione in cui si prescrive che la tutela delle denominazioni presso la ristorazione costituisca una priorità di indagine. In sostanza, la circolare dice che ciascun ristorante è del tutto libero di elencare i vini sulla carta per colore, per regione viticola o per categoria di vino, ma in ogni caso non è ammessa alcuna confusione circa l’origine, per cui, per evitare di indurre in errore il consumatore, i vini che beneficiano di una menzione protetta – aop o igp – vanno rigorosamente distinti dagli altri vini generici, che devono essere elencati in uno spazio a sé stante.

Ora, capisco chi potrebbe obiettare che i Vin de France di alcuni vignaioli esprimono una territorialità perfino maggiore di quelli etichettati sotto l’aop o l’igp, ma poiché non vi è alcun controllo sulla loro origine, il consumatore deve fidarsi solo della parola data dal vignaiolo, il che, si ammetterà, qualche volta può essere un po’ pochino. Dunque, ecco che in Francia si fanno controlli nei ristoranti e scattano sanzioni se un Vin de France viene presentato insieme con i vini a denominazione di origine.

In Italia, come detto detto, il problema per adesso non si pone. A parte casi eclatanti come Pipero che elenca anche il Tavernello, i Vini d’Italia nella ristorazione non si trovano praticamente mai, perché sono i vignaioli stessi a non usare questa modalità di etichettatura. Tuttavia, credo che la Repressione Frodi, che da noi si chiama Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (in acronimo Icqrf) avrebbe il suo bel da fare se incominciasse a verificare, e conseguentemente a sanzionare, una singola, specifica sezione delle liste dei vini, ossia quella che riguarda gli spumanti. Mi accade infatti sempre più spesso di vedere indicati sotto la dicitura Prosecco anche dei vini spumanti che con i tre Prosecco esistenti – il doc e i docg di Asolo e Conegliano valdobbiadene – non c’entrano affatto, tant’è vero che si chiamano Franciacorta, Trento e quant’altro. La deriva non è recente. Già nel 2018 Fabio Giavedoni scriveva su Slow Wine a proposito di un ristorante che menzionava nella propria lista un sedicente Prosecco Ferrari Brut, ma i casi mi pare che si siano moltiplicati, e adesso per alcuni ristoratori italiani quel che è mosso è considerato prosecco, a prescindere dalla denominazione di origine, il che non è affatto bello né per i produttori di Prosecco, né per quelli di altre denominazioni, e nemmeno per i ristoratori che lavorano bene e valorizzano i vini. So benissimo che questo vale anche per i consumatori, che ormai chiamano anch’essi prosecco qualunque vino con le bollicine, ma i consumatori non vendono vino, mentre chi vende dev’essere chiaro e trasparente riguardo a ciò che vende. Da quel che vedo nelle liste di vari bar e ristoranti, ho idea che il gettito delle sanzioni per un tal genere di omissione potrebbe raggiungere livelli abbastanza significativi. La soluzione, per evitare le multe, sarebbe piuttosto semplice, ossia far bene il proprio mestiere.